sabato 28 luglio 2012

Economia, crisi e scuola

Ripubblichiamo questo articolo apparso lo scorso 24 luglio su Avvenire on line che affronta il tema dell'educazione all'economia e dell'educazione alle virtù. Ringraziando il quotidiano cattolico e l'autore, intendiamo portare la riflessione di Luigino Bruni all'attenzione di tutti per un dialogo che costruisca una novità importante. Anche se "vecchia" di duemila anni.





Scuole popolari di economia, ora
Occhiali giusti
Per vedere chiaramente cosa sta accadendo in questi giorni nei mercati finanziari, dobbiamo dotarci di occhiali con lenti giuste, possibilmente bifocali. Occorre infatti veder meglio da vicino ciò che in questi mesi e giorni destabilizza e perturba i mercati delle economie europee più fragili (e su queste pagine di analisi, anche originali, ne sono apparse ormai molte), ma occorre anche curare la miopia che porta spesso a veder male o non vedere affatto i grandi cambiamenti epocali di lungo periodo da cui discendono questi di breve.

Non capiremo mai, ad esempio, che cosa sta accadendo in Spagna, senza guardare alla grave crisi morale e sociale che attraversa quel Paese da qualche decennio, un Paese cresciuto troppo e male, puntando su turismo e servizi e dimenticando (anche a causa di una politica europea non lungimirante) i settori primario (agricoltura) e secondario (industria). Le economie fondate sul terziario e commercio sono e saranno sempre più fragili e instabili. Questa crisi deve farci riflettere sulle vocazioni economico-produttive dei Paesi mediterranei, se non vogliamo diventare soltanto un enorme parco-giochi dove i cittadini di altri Paesi, quelli ricchi davvero, fanno vacanza e si riposano.

Se vedessimo meglio da lontano, capiremmo, poi, che l’operazione euro – per come è stata condotta istituzionalmente – ha finito per indebolire gli Stati europei più deboli, che oggi non dovrebbero aspettare di essere messi dalla Germania in una "Eurolandia di serie B", ma giocare d’anticipo e chiedere, subito, una revisione dei Trattati che impedisca attacchi speculativi come quelli di questi giorni. Come capiremmo – lo abbiamo detto ormai troppe volte – che l’Europa salverà i suoi Paesi in crisi, e quindi se stessa, solo spendendo la sua forza politica per una revisione della architettura finanziaria mondiale, che a cinque anni dalla crisi è rimasta di fatto la stessa, e questo è davvero troppo grave. Sono convinto che l’opinione pubblica debba fare di più: il bombardamento di indici di Borsa, spread, numeri che sta dominando l’orizzonte della nostra civiltà sortisce un effetto ipnotico, che blocca sul nascere ogni iniziativa civile e popolare tesa a chiedere più partecipazione nelle scelte, manovre, a chiedere più democrazia. E una delle ragioni, credo, è la quasi totale ignoranza economica-finanziaria dei cittadini, che crea insicurezza di fronte alla classica risposta dell’esperto: "La questione è molto più complessa". Ma la complessità non va subìta, va affrontata, perché è vero che una delle lezioni più grandi del mondo contemporaneo è averci mostrato un cambiamento radicale, forse sostanziale, dell’economia e quindi del mondo.

La vita economica come la conosciamo oggi è profondamente diversa da quella che conoscevamo fino agli anni Settanta: il mercato sta diventando sempre di più la principale grammatica delle relazioni sociali (basterebbe considerare linguaggio e cultura delle scuole, degli ospedali, della politica per capire cos’è il mercato oggi).​

Continuare a leggere il mondo senza capire la centralità di questa nuova economia è semplicemente sbagliato, e quindi produce diagnosi e terapie errate, come lo sono la grande maggioranza di quelle che ascoltiamo in questi giorni. Si continua a pensare all’economia, ai suoi linguaggi alle sue tecniche, come a qualcosa che riguarda un ambito separato dalla vita civile, competenza di addetti ai lavori, per poi venire sommersi quotidianamente da tutta un’informazione (e una simbolica) economica che riempie le nostre colazioni, pranzi e cene.

C’è allora un urgente bisogno di investire in educazione economico-finanziaria, perché l’unico modo per ridurre il peso e l’invadenza dell’economia e della finanza nelle nostre vite, e magari governarle con la democrazia, è conoscerle bene o almeno meglio. Dovremmo inserire la conoscenza dell’economia e della finanza nelle scuole di ogni ordine e grado, e trasformare profondamente quella esistente nelle facoltà di economia, dove si studia troppo business, ma non diamo strumenti adeguati per orientarsi nel mondo, per imparare a «parlare economia», come dice l’economista americano Robert Frank. I nostri laureati in economia fanno un’esperienza simile a quella che facevamo nella mia generazione con lo studio dell’inglese: nella prima gita scolastica all’estero scoprire drammaticamente che, dopo anni di grammatica e sintassi, si era totalmente incapaci di qualsiasi primitivo dialogo con gli inglesi veri. È infatti molto amaro constatare che oggi si può arrivare a una laurea in economia senza mai aver sentito parlare, se non in qualche accenno fugace, delle cose più importanti degli ultimi quarant’anni di ricerca in questa scienza: le asimmetrie informative, la finanza comportamentale, i beni comuni, che sono strumenti essenziali, non solo utili, per capire che cosa sta accadendo oggi al mondo e in Europa (che cosa sta producendo l’impennata degli spread in questi giorni se non l’uso di asimmetrie informative da parte di alcuni grandi attori speculativi?).

uesta crisi dovrebbe portare a riscrivere interamente i manuali di economia e di finanza, aggiornandoli, ma anche cancellando teoremi e dogmi errati che sono anche alla base della crisi di questi tempi. Ma non basta: c’è bisogno di far partire scuole popolari di economia e di finanza (ma di quelle "buone" e non di quelle vecchie e sbagliate) nelle comunità, nelle associazioni, nelle parrocchie. La democrazia è cominciata veramente nei banchi di scuola, con la letteratura, con la poesia, con la matematica, che ci hanno trasformato da servi in cittadini. Oggi la nuova democrazia richiede di formarsi anche all’economia e alla finanza se vogliamo essere veramente liberi e non in balia di tecnici, di indici e di "ferree leggi". La nostra libertà sostanziale oggi passa anche per una maggiore e migliore cultura economica e finanziaria, se non vogliamo tornare sudditi di nuovi re e nuovi principi, senza volto ma non meno spietati.

Luigino Bruni

martedì 10 luglio 2012

La scuola e il mercato


Solo il mercato stabilisce quali sono le scuole migliori, non un “comitato centrale” né i test Invalsi


Ripubblichiamo volentieri questo post apparso sul blog Manibucate a firma Marco Cobianchi che troviamo stimolante per la riflessione.

La peggiore performance del governo Monti riguarda la scuola. Non perché non abbia tagliato i fondi all’istruzione (parliamo di soldi per licei, istituti professionali e Università), ma perché non ha il coraggio di varare quella rivoluzione che, illusi, ci si attendeva: consentire ai fruitori del servizio di scegliere il tipo, il luogo, la quantità e la qualità di formazione che si desidera. Per essere chiari: non potrà mai essere una struttura ministeriale che usa le prove Invalsi (sulla cui scarsa affidabilità c’è una così ampia pubblicistica che è legittimo domandarsi se sia il caso di attribuire a quei risultati qualche autorevolezza) a stabilire quali sono le scuole migliori. Io, per esempio, non sceglierei mai la scuola migliore per i miei figli basandomi sui risultati dei test Invalsi, buoni per qualche statistica. A stabilire quali sono le scuole migliori è solo il mercato.
Certo: capisco che pronunciare la parola “mercato” accanto alla parola “scuola” ha l’effetto di attirarsi gli strali, le accuse, addirittura le minacce di chi pensa che prioritaria sia l’innalzamento della qualità dell’istruzione pubblica senza mai specificare in che cosa consista esattamente “aumentare la qualità dell’istruzione pubblica” se non aumentare la spesa pubblica per l’istruzione pubblica. Ma l’equazione più spesa uguale più qualità non funziona (e non funziona soprattutto in Italia) se non si inserisce nel meccanismo un sistema premiale per le buone scuole e uno penalizzante per le cattive scuole.
Il mercato, nel settore scolastico, non deve far paura, perché esso corrisponde agli utenti, cioè alle famiglie e agli studenti. Faccio un esempio pratico: i genitori (in maggioranza le mamme) hanno ormai già scelto la scuola che i loro figli frequenteranno nell’anno scolastico 2012-2013. E lo hanno fatto sulla base di informazioni assunte sia nel corso degli open day degli istituti sia, soprattutto, sulle informazioni che raccolgono tra amici, parenti, conoscenti, ex studenti, ex docenti. Questi sondaggi portano alla decisione finale. Poi, una volta individuata la scuola migliore, le famiglie si fanno i conti in tasca per stabilire se possonoi permettersi di sostenere le spese di quel tipo di istruzione, magari privata e, nel caso in cui non possano, sono costrette a ripiegare su altri istituti, magari pubblici, che non garantiscono la stessa qualità. Questo è sbagliato.
La soluzione per permettere a studenti meritevoli di frequentare le scuole che i loro genitori non si possono permettere è mettere in concorrenza le scuole che ci sono (pubbliche o private non ha importanza) attraverso lo strumento del “buono scuola” che abbassa il prezzo dell’istruzione rendendo omogenei i costi per l’utente-famiglia che possono così decidere in vera libertà quanta e quale istruzione “acquistare”. Sono loro a decidere quali sono le scuole migliori, e non un “comitato centrale”. Sono loro che stabiliranno quali sono le scuole migliori, perché saranno quelle con il maggior numero di studenti e, quindi, con i maggiori incassi che permettono di assumere i migliori professori.
E’ evidente, infatti, che la riforma (ma sarebbe meglio chiamarla rivoluzione) del buono-scuola non può esistere senza un’incisiva riformulazione degli ambiti d’intervento e dei poteri dei dirigenti scolastici (cioè dell’offerta) che devono avere la massima autonomia nelle assunzioni e, conseguentemente, nei licenziamenti dei professori, che diventano, così, il vero asset strategico di ogni singolo istituto.
Dare il potere di decidere alle famiglie e introdurre la meritocrazia nelle aule scolastiche: due tabù sia per la parte maggioritaria del sindacato sia per la parte minoritaria (ma culturalmente egemone) dei partiti. Questo è il motivo per il quale la rivoluzione scolastica era da attendere da un ministro dell’istruzione non legato (?) a nessuno di questi due ambienti. Ma (anche questo ministro) ha preferito passare alle cronache piuttosto che alla storia.

lunedì 2 luglio 2012

Videogiochi e famiglia

Reblogged da Family & Media blog in tre lingue sulla relazione tra famiglia e mezzi di comunicazione moderni


Il potere dei videogiochi. Intervista al Professor Giuseppe Romano

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Abbiamo incontrato il Professor Giuseppe Romano, uno dei massimi esperti di videogiochi in Italia, per intraprendere insieme un viaggio all’interno di questo mondo, affascinante ed in continua evoluzione, ma anche pieno di rischi ed incognite. L’intento è quello di approfondire un tema così delicato e sempre più presente all’interno delle nostre famiglie, per cercare di capire cosa spinge milioni di ragazzi (e adulti) a passare più ore al giorno davanti ad una console. Cosa c’è di così avvincente e seducente e quali sono i possibili pericoli? Possiamo considerare i videogame come una nuova opportunità di crescita o costituiscono una vera e propria minaccia per i nostri figli?
Professor Romano, sempre più bambini passano il loro tempo in casa da soli davanti ai videogame, a scapito dei giochi reali come una partita a pallone con gli amici o una passeggiata al parco. E' un fenomeno ormai innegabile e sotto gli occhi di tutti. E' solo una moda e un trend commerciale del momento o siamo di fronte ad una rivoluzione sociale e culturale destinata a cambiare radicalmente non solo il nostro modo di passare il tempo libero, ma anche di socializzare e di rapportarci agli altri? 
 La risposta non può che iniziare dal mettere in crisi un presupposto della domanda: quello cioè che gli altri siano giochi “reali” e i videogiochi invece no.
Che cosa sono allora i videogiochi? Coinvolgono persone reali, occupano tempo reale e per di più fanno entrare in scenari immaginati da uomini. Se non fossero reali, in tal caso nemmeno un romanzo o un film sarebbero reali. E nemmeno una partita di calcio, dal momento che si tratta di un gioco che mette in scena regole fittizie e arbitrarie.
L’era digitale ha cambiato certamente alcuni nostri canali di comunicazione e di esperienza, e molti di essi passano attraverso i computer. Alcuni riguardano il gioco, altri coinvolgono il lavoro o la socialità. Prima di domandarci se ci fanno bene o male, conviene chiederci come ci cambiano la vita. Perché sono reali, altroché.
Senza voler demonizzare il mondo dei videogame e i genitori che li comprano ai propri figli, quali sono i rischi effettivi a cui si va incontro, soprattutto a livello di salute. Alcune recenti ricerche affermando che un uso eccessivo della console può comportare gravi disturbi neurologici, soprattutto nei bambini o scatenare crisi epilettiche nei soggetti a rischio. L'abuso inoltre può portare oltre alla dipendenza, anche alla depressione. Siamo di fronte a dei veri e propri "mangiacervelli" o forse le critiche sono esagerate? 
Anche su questo punto la risposta non può essere superficiale. Certamente un uso eccessivo dei videogiochi arreca disturbo alla salute: fisico, certo – sono state riscontrate numerose patologie possibili, da quelle oculari a gravi forme di artrosi alle mani –, ma anche sociale. Aspetto, questo, ancora più grave e che dovrebbe indurre taluni ricercatori a fare un passo indietro, per esplorare tra le possibili cause di patologie la più seria, che è l’abbandono. Per un bambino o un ragazzo che si sente solo, che trova attorno poco spazio e poco interesse per sé, l’evasione in “altri mondi” è il più semplice dei rimedi, la più immediata delle risposte. Da questo punto di vista i videogame sono ottimali, poiché procurano un’immersione visiva, uditiva, narrativa e perfino tattile che davvero trasporta altrove.
Ma, come dicevo, il problema è a monte. La parola chiave è “uso equilibrato”, e la famiglia costituisce l’unica sede in cui si apprende l’equilibrio. Senza equilibrio qualsiasi attività è dannosa e può arrecare danni fisici, emotivi e sociale: persino succhiare mentine, figurarsi i videogiochi.
Esistono in tal senso degli Osservatori in Italia che fanno studi su tali questioni e che possono essere di aiuto e orientamento ai genitori?
Pochi. Il sistema europeo di valutazione PEGI (www.pegi.info), che suddivide i titoli per fasce d’età e spiega con simboli sulle copertine il genere di situazioni che si incontra nel gioco (violenza, alcol, sesso, ecc.) è importante perché i produttori di videogame si sono impegnati a rispettare alcuni princìpi e sono i primi a desiderarlo (pena sanzioni). Però questo sistema, se dà indicazioni spesso accurate su ciò che va evitato, non può sostituirsi alla testa dei genitori né tantomeno giudica la qualità culturale delle proposte. Il consiglio è, salvo indicazioni attendibili sul contrario, di tenere presenti le indicazioni circa l’età.
Vengo solo ora al punto saliente della domanda perché in effetti ci sono pochissime indicazioni concepite per i genitori nel mondo dei videogame in Italia. Chi scrive tiene un blog su www.famigliacristiana.it, che si intitola Family Game e si occupa proprio di questi aspetti. Un’altra occasione in cui si è affrontato il mondo dei videogame sotto il profilo familiare ed educativo è il Fiuggi Family Festival (www.fiuggifamilyfestival.org) che da anni organizza momenti di riflessione, ma anche laboratori di interazione, per far accostare famiglia e videogiochi nel migliore dei modi.
La mia esperienza è che troppo spesso la censura è, ancor più che preventiva, pregiudiziale, nel senso che la diffidenza e lo spavento degli adulti rispetto a questo tipo di opere (che magari non hanno mai guardato da vicino) porta a rifiutarle in blocco. Così come l’indifferenza o un entusiasmo acritico, ancor più frequenti, portano a un’accettazione scriteriata dei videogame e di internet: sono certamente troppi gli adolescenti e i bambini che infatti navigano senza confini di alcun tipo. Atteggiamenti entrambi sbagliati, posto che una famiglia italiana su due “ospita” videogame e che comunque tutti i bambini giocano, a casa di questo o di quello o anche per strada.
Ma in fondo perché attirano tanto i videogiochi, non solo ai bambini ma anche agli adulti? Gli adulti che li fruiscono sono adultescenti?
I videogame sono, semplicemente, una nuova categoria dell’espressività umana. Così come la tv, il cinema, i romanzi o le discoteche, sono ambienti personali e sociali in cui alcuni uomini interagiscono con altri tramite idee, fantasie, immagini e relazioni.
Esattamente come accade in tutti gli altri casi, i videogame possono essere ben fatti o mal fatti, interessanti o noiosi, di alto o di basso livello. Possono veicolare contenuti educativi o distruttivi. Possono essere adatti ad adulti o a bambini. Nei casi in cui si realizza il meglio di queste alternative, abbiamo un’opera interessante, affascinante, importante.
Il videogame è un’opera digitale, multimediale e interattiva. Comunica cioè in una maniera peculiare e innovativa rispetto alle precedenti arti, e in quanto tale possiede un linguaggio sofisticato e capace di comunicare realtà umane grandi e piccine. Poi, come accade con i libri, esistono opere impegnative o di intrattenimento, fascicoli smilzi o mastodonti in più tomi.
Il linguaggio dell’interattività è fra di noi e ci ha conquistati tutti con la forza delle consuetudini. Impossibile non valersene: la Rete globale ormai comprende tutto ciò in cui ci imbattiamo, in qualunque attività siamo coinvolti. Tanto più è d’obbligo ricordare che la Rete non è la somma dei macchinari, bensì la somma delle persone e delle relazioni che intrattengono. Nello sforzo di essere e di restare umani giocano il loro ruolo anche i videogame.
Esistono, quando non c'è abuso, degli aspetti positivi nell'uso videogiochi? Possono essere un modo giusto per creare nuove dinamiche tra genitori e figli e contribuire alla loro crescita?
Se i genitori svolgono il loro difficile ma stupendo ruolo, che consiste nello stare al fianco dei figli, anche i videogame potranno essere strumenti di vita familiare. Si può giocare insieme – ci sono giochi pensati apposta, ormai su tutte le console – ma secondo me ancor più conta che ci si interessi in modo reale agli interessi dei figli, anche quando si tratta di un videogioco apparentemente innocuo o banale. “Interessarsi” del resto è il termine che secondo me compendia la pratica dell’affetto e dell’amore, sempre, ma specialmente in quella relazione intergenerazionale che è la paternità, la maternità e la filiazione.
Oltre a questo, la recente diffusione dei tablet, tavolette elettroniche che si comandano col tocco delle dita e che ospitano contenuti da leggere e con cui interagire, ha dischiuso la soglia di applicazioni nel mondo della scuola e dell’educazione, che si promettono suggestive. Per legge, dall’anno venturo nessun libro di testo scolastico potrà mancare di una componente interattiva: stiamo a vedere…
Come la mettiamo con la rappresentazione della violenza nei videogiochi; possono essere pericolosi secondo lei, creare dei disturbi o istigare reazioni violente? Che criteri dovrebbero seguire i game-designers affinchè la "violenza ludica" non venga assorbita dal fruitore?
In parte ho già risposto alla domanda: spesso i problemi cominciano prima dei videogiochi e questi non fanno che rispecchiarli. Un bambino rabbioso e violento si tufferà in un videogioco “violento” per trovare un obiettivo per la sua disposizione d’animo. In parte così facendo la sfogherà, in parte potrebbe anche amplificarla.
In effetti, però, sulla violenza bisogna intendersi. Tutti noi spesso facciamo di ogni erba un fascio, e bolliamo con l’etichetta di violenza realtà che in effetti sono assai più complesse. Il rischio è di condannare, di fatto, amplia parte della nostra cultura: da Shakespeare alla Divina Commedia, alla Bibbia e perfino al Vangelo. Il Signore degli Anelli è un’opera violenta? Certo, si combatte, non mancano aggressioni e squartamenti. Però a mio parere questa lettura induce ad amare e a difendere pace e giustizia.
La particolarità dei videogame consiste nell’immedesimazione: si gioca in prima persona. Sicché, sì, può esserci grande violenza nel far impersonare ruoli inaccettabili a chi non ha il distacco critico e la maturità per assumere una consapevolezza ironica. Per questo sconsiglio grandemente di lasciar giocare a bambini e ragazzi un gioco comeGrand Theft Auto, dove si assume la personalità e la carriera di un malvivente. Ma ancor più diffido di giochi come I Sims, dove le relazioni umane vengono “dolcemente” ma seriamente banalizzate.
Quali sono le spie rosse per un genitore che vede un figlio passare molte ore al giorno davanti ai videogiocchi? Quando bisogna allarmarsi e quando invece no?
Quali sono le spie rosse per un genitore che non vede rientrare un figlio la sera, o che gli vede in mano pubblicazioni deliranti? Ovvio. Le stesse spie rosse dovrebbero però accendersi per un figlio che legge giorno e notte e non incontra mai nessuno.
Tra i ruoli dei genitori c’è l’amministrazione del tempo dei figli. Alcuni videogiochi, è bene saperlo, coinvolgono al punto da far passare decine e decine di ore a chi ne è appassionato. Sono mondi ricchi, complessi, affollati. In questa ricchezza si annida anche il problema del “quanto”. Occorre frequentarli un po’ per volta, un giorno dopo l’altro, entro confini di tempo e di priorità ben precisi: è la maniera di far apprezzare i lati positivi senza eccessi.
Qualche ora davanti allo schermo, in sé, non è un pericolo. Ma è davvero educativo imparare a smettere tanto quanto a cominciare.
Come riconoscere un gioco di qualità, al di là delle certificazioni, recensioni o classifiche di vendita?
Qualche consiglio, il passaparola, recensioni attendibili. In mancanza di questi, come minimo va rispettata l’indicazione dell’età consigliata che compare sulla copertina.
Più ampiamente, quasi tutti i videogame oggi sono “di qualità” sotto il profilo industriale e commerciale: sono produzioni costose a cui si dedicano professionisti competenti e a volte geniali. In Italia il fatturato annuo dei videogame è il doppio di quello dell’home video, ha superato quello della musica e guarda non tanto da lontano quello dei libri.
Questo non vuol dire certo che tutti i videogame siano consigliabili, ma ciò che senz’altro non si deve fare è sottovalutarli.
Un' ultima domanda. C'è un improvvisa esplosione  della tecnologia 3D al cinema, come ad esempio in Avatar. Sarà la nuova frontiera anche per i videogame e con quali effetti e conseguenze, tenendo conto che  la tecnologia 3D è sicuramente molto più invasiva delle precedenti.
Il 3d nei videogame c’è da tempo. Anche nel cinema, di fatto, dal momento che è stato introdotto fin dal 1920.
La ragione per cui ora è in voga, oltre al perfezionamento della tecnologia cinematografica, è che si prospettano apparecchi televisivi adatti a rivedere (e a rivendere) film di questo tipo. Accade anche con molti videogiochi, in qualche caso richiede tecnologie aggiuntive (e costose), in altri è più immediato, come nella console portatile 3DS di Nintendo, che non richiede occhiali.
In quasi tutti i casi oggi la visione è faticosa proprio a causa degli occhiali, ma presto potrebbe diventare facile e “trasparente”.
Al di là del fatto tecnologico, occorre distinguere: se si tratta solo di effetti speciali, ci si abitua come a tutto. Se invece il 3d viene sfruttato come risorsa espressiva e di linguaggio (AvatarHugo Cabret), è un’arma in più per raccontare e per coinvolgere non solo gli occhi.

(*) Giuseppe Romano, giornalista, è partner di UniOne - Architetture di comunicazione srl, società di consulenza per la comunicazione d’impresa.
Insegna Lettura e creazione di testi interattivi nel corso di laurea specialistica in Comunicazione mediale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano).
È vicedirettore artistico del Fiuggi Family Festival (www.fiuggifamilyfestival.org), dedicato al rapporto tra la famiglia e cinema, tv ecc.
È presidente dell’associazione Digital Kids, dedicata alla dimensione educativa dei nuovi linguaggi, in famiglia e a scuola (www.digkids.wordpress.com).
È stato consulente per la multimedialità della Struttura Tematica Programmi per Ragazzi della Rai.
Per Edizioni Lavoro (Roma 2004) ha pubblicato La città che non c'è (L'internet frontiera di uomini), uno studio sulle implicazioni sociali e comunicazionali della Rete digitale.
Con Stefania Garassini ha pubblicato per Raffaello Cortina Editore (Milano 2001) il volume Digital Kids. Guida ai migliori siti web, cd-rom e videogiochi per bambini e ragazzi, frutto di una ricerca condotta per conto della Regione Lombardia.
Nel 1996, per Arnoldo Mondadori Editore, ha ideato e diretto l’opera in due cd-rom Varcare la soglia della Speranza, adattamento multimediale e interattivo del libro di Giovanni Paolo II, tradotto nelle principali lingue.