venerdì 28 settembre 2012

Avere fiducia nei figli: anche all'asilo


Romana e romanista, come dice lsua biografia ufficiale, giornalista della pagina Esteri del CorSera, una lunga esperienza in terra statunitense, autrice di un blog sui diritti umani in collaborazione con Amnesty InternationalMonica Ricci Sargentini si concede puntate di qualità su 27esimaora, il blog al femminile del CorSera che “racconta le storie e le idee di chi insegue un equilibrio tra lavoro (che sia in ufficio o in casa), famiglia, se stesse. Il nome nasce da uno studio secondo il quale la giornata delle donne in Italia dura 27ore allungandosi su un confine pubblico-privato che diventa sempre più flessibile e spesso incerto”. 
Rispecchiando il mondo che ci circonda, questa finestra del CorSera non va presa come oro colato: spesso i punti di vista sulla realtà sono in scarsa o nessuna sintonia con una visione della vita centrata sull'antropologia cristiana.  
Non è certamente il caso dei pezzi di Monica che con il pezzo sui bamboccioni all’asilo ha fatto il botto. Non che gli altri articoli da lei pubblicati in questo blog siano meno interessanti del pezzo sull'avvicinamento dei piccoli all'asilo, chiariamolo subito. Sicuramente però la reazione che ha suscitato la sua riflessione sulla follia dell’inserimento all’italiana è stata di quelle che graffiano. No, nessuno è corso a bruciare copie del CorSera davanti a via Solferino, o ha assaltato le redazioni periferiche: sulla rete però la rissa tra i sostenitori di Monica e chi la apostrofava di crudeltà verso l’infanzia si è fatta assai ruvida e con forti sentimenti in campo. Ma si quale reato si è macchiata Monica per suscitare reazioni così vivaci? Le ho chiesto perché sollevare il velo sul mammismo ansioso che colpisce molte mamme italiane.

Come mai le è venuto in mente di toccare uno degli argomenti più pericolosi dell’educazione?
Era tanto che volevo farlo. Sono sempre stata molto insofferente verso gli atteggiamenti iperprotettivi delle mamme italiane. Penso che un’educazione più spartana e “leggera” nel senso di non ansiosa sia la ricetta giusta per crescere dei bambini sicuri di sé, indipendenti e anche felici. Ai miei figli non impongo la maglietta della salute, gli lascio fare il bagno anche dopo aver mangiato, non gli parlo delle correnti d’aria e non penso mai che muoiano di fame. Se vogliono dormire da un amichetto sono contenta. I gemelli a nemmeno tre anni sono andati in Inghilterra con la tata a casa dei suoi genitori (che avevamo conosciuto), tutti hanno pensato che fossimo pazzi, invece loro sono stati benissimo.

Secondo lei perché il suo pezzo, con il quale concordo al 100%, ha sollevato queste reazioni molto emotive?
Perché ha toccato un nervo scoperto, una situazione che è sotto gli occhi di tutti. E’ stato come dire “il re è nudo”. Che l’inserimento sia fatto per rassicurare le mamme e non i bambini mi sembra abbastanza chiaro. Alla base di questo ragionamento c’è la diffidenza, la sfiducia nell’affidare agli altri i propri figli perché meglio della mamma non c’è nessuno. Un atteggiamento che porta danni perché bisogna essere aperti al mondo e non chiusi.

Qual è il principio alla base della sua riflessione?
Che non bisogna trattare i bambini come se fossero di porcellana ma al contrario avere più fiducia nelle loro possibilità di adattamento e nella loro fame di conoscenza. Le faccio un esempio: ci preoccupiamo sempre che non prendano freddo quando è noto che i bambini hanno più caldo di noi. Basta ricordarsi questo per placare l’ansia. Pensi che noi alla materna abbiamo avuto un grosso problema nella classe di Eva perché la maestra pensava che non la coprissimo abbastanza! E lo stesso avviene con l’inserimento. Perché mai andare a scuola dovrebbe essere traumatico? Perché il bambino dovrebbe piangere? Dopotutto le occasioni di distacco dalla madre possono essere molteplici, la scuola non è l’unica. Secondo me l’inserimento è sintomo di ansia, di iperprotettività, rende il bambino insicuro e fragile.

Ma le mamme di oggi sono troppo ansiose? Perché?
Un tempo c’era la saggezza popolare. Quando nasceva un figlio si seguivano i consigli della mamma e della nonna. Oggi le donne sono sole e spesso in balia delle mode. Come quella dell’allattamento a richiesta. Un’altra follia, non solo italiana questa volta, per cui si consiglia con molta insistenza alle neomamme di non dare una routine al bimbo sin da subito. Con il risultato che molte smettono sentendosi in colpa terribilmente. E che il neonato fatica a prendere un ritmo, a dormire sin da subito la notte e non fa mai un pasto completo.

Quale responsabilità hanno avuto e hanno gli operatori culturali, dagli psicologi fino ai giornali, nella creazione di una mentalità pro-bamboccioni, cioè a favore dell’iperprotezionismo sempre e comunque?
Sicuramente la doverosa attenzione alla psicologia è stata esasperata e anche svuotata di significato perché tutti ormai si sentono padroni della materia. Così capita che la maestra, anzi l’educatrice come si dice oggi, definisca oggetto transizionale il libro che il bambino vuole portare a casa, senza sapere che magari quel bambino manifesta spesso quel desiderio e non solo a scuola. Alla materna dei miei figli ho notato un uso spropositato di paroloni per descrivere l’attività dei bambini. L’altro giorno sul Corsera ho letto un articolo che invitava i genitori a non buttare i giocattoli dei figli perché dietro ognuno di essi c’è un ricordo! Ho cominciato a immaginare ridendo case piene di giocattoli dove non si poteva più entrare.   


Perché all’estero è diverso secondo lei?
Non voglio generalizzare ma sicuramente nel Nord Europa c’è più pragmatismo e quindi i piedi rimangono per terra. Ci si fanno meno problemi a prendere un aereo con un neonato o a portarlo in alta montagna. Quante famiglie abbiamo visto in giro con dei bambini piccolissimi? Della scuola inglese, infatti, mi piace l’essenzialità. Non mi hanno mai chiesto di portare un bavaglino e questo perché il bambino deve imparare a mangiare senza sporcarsi. Non lo trova giusto? All’Università negli Stati Uniti gli studenti vivono nel campus e si guadagnano i primi soldi con qualche lavoretto. Io, per esempio, allo Smith College mettevo a posto i libri in biblioteca e mi pagavano. Questo vuol dire educare all’autonomia.

Quali sono a suo parere i principali problemi che le famiglie oggi affrontano nell’educazione?
La mancanza di punti di riferimento e di uno Stato che vada incontro alla famiglia. In Francia le madri lavoratrici portano i bambini al nido a poche settimane dal parto. Qui invece ti fanno sentire in colpa se non fai l’inserimento come se da quello si misurasse il tuo attaccamento ai figli. E poi penso che sia negativa la mancanza dell’autorità. Quando i genitori giocano a fare gli amici dei propri figli, quando i professori vengono messi continuamente in discussione non solo dai ragazzi ma anche da papà e mamma, non può venire fuori nulla di buono.

Quali principi dovrebbe seguire una famiglia nell’educazione?
Questa è una domanda difficile perché chiaramente ognuno alleva i figli secondo i propri principi. Io per esempio penso che sia importante un’educazione un po’ all’antica i cui pilastri sono il rispetto, la gentilezza, l’onestà, la tenacia, la fiducia e l’amore per gli altri, lo studio duro e naturalmente le buone maniere. Penso anche che sia fondamentale un percorso spirituale. Non mi sentirei mai di dire a un bambino che Dio non esiste. Per decidere di non credere c’è sempre tempo. 


Può darci tre consigli che una famiglia dovrebbe seguire per essere felice?
Lei mi mette in difficoltà. Sicuramente il primo, fondamentale, è dormire. Una famiglia felice deve poter riposare la notte. Insegniamo ai neonati sin dai primi giorni ad addormentarsi da soli nella loro stanzetta. Evitiamo i riti della buonanotte e se piangono non corriamo subito in loro soccorso. Gli regaleremo la possibilità di essere autonomi sin da subito!
Il secondo è amarsi. Se i bambini respirano armonia e tenerezza in casa cresceranno più sereni. Lo dico da figlia di divorziati. E’ chiaro che non è facile e  a volte non è possibile. Ma è fondamentale per la stabilità interiore e anche per i futuri rapporti affettivi dei nostri figli. La famiglia che siamo è il modello che loro in qualche modo avranno dentro per sempre.
Il terzo è insegnargli a sognare, a pensare che nulla sia impossibile. Io l’ho imparato in America: se vuoi una cosa veramente puoi ottenerla, basta che ti impegni.  Non a caso gli americani la ricerca della felicità l’hanno messa tra i diritti elencati nella dichiarazione d’Indipendenza. Ai miei figli ripeto sempre che non bisogna mollare mai. E ci credo veramente.  

mercoledì 26 settembre 2012

Un eroe di papà



Ci sono libri che sgomentano, che vorresti non aver mai incrociato. Come un bambino, vorresti ficcare la testa sotto il cuscino per fingere che non esista, che il vento sia solo vento e non il soffio di un dinosauro gigantesco pronto a distruggere la tua casa e portarti via le persone che ami. Eppure non sei più bambino e il mostro lo devi  guardare negli occhi perché solo così, solo prendendone consapevolezza, lo puoi sfidare e vincere e ricacciarlo lontano.
Che siano tempi duri per l’educazione nemmeno un provocatore d’esperienza e d’eccezione può negarlo, che il rigurgito di ubris dei padri stia travolgendo, come un’onda sozza e morbida, i figli forse non tutti lo comprendono, ammaliati dal canto delle sirene che promettono libertà nascondendo nella fossa dei cadaveri la responsabilità che li ha ridotti prima a pòrci e poi a carogne. Ma è così.
E quando pensi di startene tranquillo, nel tuo guardino a contemplare le rose, mentre attorno la catastrofe nucleare sta radendo tutto al suolo e incenerendo, ecco che basta un libro, o una conversazione apparentemente banale a tavola d’estate sull’uso dell’intimità delle figlie, per prenderti per i capelli e ficcarti con violenza la testa sottacqua.
Ed è un vero e proprio waterbording questo saggio di Meg Meeker, pediatra statunitense con interesse per l’educazione, tradotto in Italia dalla brava Sossy Manoukian, anch’essa esperta di pedagogia e adolescenti, il cui titolo originale Strong fathers strong daughters è stato tradotto con il più colorito ed immediato Papà sei tu il mio eroe.  Ho intervistato Sossy chiedendole di entrare in profondità nel testo e qui (prima parte) e qui (seconda parte) trovate le sue sagge risposte che illustrano perché il padre ha un ruolo così significativo nella vita e nello sviluppo delle figlie femmine e deve proprio essere il loro eroe.
Mi riservo di approfondire il terrore che questo libro mi ha spalancato d’innanzi per convincere anche voi non solo a leggerlo, ma a darvi da fare –subito- per evitare che le nostre figlie cadano in quest’abisso di dolore che potrebbe segnarle per tutta la vita. Perché di questo si tratta, della loro felicità, del loro futuro, della loro solidità. Che è una illusione pensare che averle attrezzate con una buona e dettagliata educazione sessuale per farle camminare solari e fiorite nell’altopiano della vita, dove tutto è profumo e cielo e vette innevate. Anzi, la devastante descrizione di quali effetti una precoce e frequente intimità dilapidata possa produrre nell’esistenza di una bambina –gli studi istituzionali statunitensi riportati dalla Meeker parlano di inizio delle attività sessuali intorno agli 11 anni- se il padre non prova almeno a indirizzarla verso una strada corretta, producono un sano senso di auto-analisi in ogni genitore, nel tentativo di comprendere dove e quando ha sbagliato e che cosa può fare per correggersi.
Perché è inutile illudersi: tutti sono esposti alla debolezza e non esiste nessuna famiglia che possa garantire che i suoi ragazzi no, mai e poi mai, perché noi, perché i valori, perché le amicizie… Conosco più giovani di “buona famiglia”, tutti “casa, scuola e oratorio”, tutti “volontariato e preghiere” che si sono sposati perché in tre che non…. Lasciamo perdere.
Arriva una età in cui un genitore può solo affidarsi a due cose, e con grande differenza che non sto qui a dettagliare: la preghiera e ciò che ha fatto fin lì. Infatti questo dobbiamo pensare: che siamo stati capaci di trasmettere il senso di quei valori –redde ratinem!- per cui vale la pena, per cui la pazienza paga, per cui il pudore non è oscurantismo. E non favorire le tentazioni, non giocare a fare il moderno e facilitare, ben consapevole che l’occasione si può creare comunque e ovunque. Poi c’è la libertà, quella dura e tagliente cosa che Dio ha creato per permetterci l’amore, e la responsabilità –oh questa sì da insegnare- che a se stessi e a Dio dovranno rendere conto.
Per questo il saggio di Meg Meeker è un aiuto formidabile, perché ci guida a comprendere come padri che cosa possiamo fare per mettere tutto in gioco, tutto sul loro comodino perché in questa giungla metropolitana oggi sappiano difendere se stesse dai seducenti Lucignoli che in tutti i modi, agghindandosi da principiazzuri o da lupi famelici (e non so oggi che cosa attizzi di più), trascinino le nostre bambine nel paese dei profumi, che i balocchi li hanno ormai lasciati alle spalle…
E se osate pensare che la mia è realmente una bambina e c’è tempo e non è il caso di preoccuparsi ora, sia anatema, perché state perdendo il tempo di seminare ed è un tempo che scivola via più rapido di una Olimpiade, di una medaglia persa all’ultimo secondo, o rubata da una giuria compiacente.
Leggete e poi mi direte. Non sciupate il tempo, che non si sa mai se ci offrirà mai nuovamente il suo sguardo benigno.

lunedì 24 settembre 2012

Luis Cardona: ragazzi a digitalizzazione globale


Per gentile concessione della Rivista Fogli (Edizioni Ares) pubblichiamo l'intervista al professor Luis Cardona sui digital kids.

Dopo la maturità, Luis Cardona si trasferisce da Barcellona, sua città natale, in Svizzera, dove si laurea in Economia aziendale a Ginevra e poi in Informatica a Zurigo. Dopo aver lavorato presso una fondazione zurighese seguendo progetti di alfabetizzazione informatica in Europa (Italia
compresa), ha svolto un’attività di ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale (sistemi esperti)
che si è conclusa nel 1994 con un dottorato presso l’Università di Friburgo. Da quel momento
si è dedicato completamente alla formazione giovanile, prima dirigendo residenze universitarie a
Friburgo e Zurigo, poi fondando un Club giovanile a Lugano, nel 1998.
Nel tentativo di sviluppare un nuovo approccio pedagogico che sia veramente efficace contro
l’attuale emergenza educativa e che possa portare serenità nelle famiglie e nei ragazzi, ha messo
in piedi con alcuni amici e collaboratori un progetto educativo, chiamato Everest, che è allo stesso
tempo un liceo futuristico e un centro di ricerca neuro-psico-pedagogico. Il progetto prevede
una rete formativa con diversi centri di attività: Lugano (sede dell’Everest) e partners ospitanti a
Washington, Londra, Colonia, Palermo e Nairobi.


Professor Cardona, che cos’è l’emergenza educativa di cui si sente tanto parlare?
L’emergenza educativa nasce come il risultato di due rivoluzioni culturali di fine secolo scorso: la rivoluzione del ’68 e la rivoluzione digitale (Internet, cellulare, Facebook...). La scuola sta perdendo il contatto con la realtà, poiché non evolve e, dunque, non riesce a trovare un suo ruolo all’interno di un mondo che sta cambiando molto velocemente. Questa perdita di contatto con la realtà sta portando a un numero molto elevato di fallimenti scolastici. La cosa che rende perplessi gli esperti è che i ragazzi, invece di cercare di impegnarsi per evitare le insufficienze, le accettano come qualcosa di «normale».
Sembra che a loro non importi molto il rischio di dovere ripetere l’anno...
Davanti a questo atteggiamento di boicottaggio del sistema scolastico, la scuola non sa come reagire: non sembra che ci siano soluzioni in vista. Questo disagio, sempre maggiore, mette in grande tensione le famiglie: i genitori, davanti a questi insuccessi dei figli, non sanno più come relazionarsi con loro. La sfida educativa finisce per diventare anche una sfida all’interno della coppia. Purtroppo molte famiglie non reggono e i legami famigliari finiscono per rompersi. Il tessuto famigliare si sta sciogliendo: e questo è un grande male per tutta la società.
L’emergenza educativa però non è dovuta principalmente ai ragazzi che non vogliono impegnarsi. In questo contesto
i ragazzi, più che colpevoli, sono vittime.

Una volta Giovanni Paolo II disse che se avesse dovuto salvare, per ipotesi assurda, un solo versetto della sacra Scrittura avrebbe scelto: «La verità vi farà liberi». Quale verità occorre far conoscere ai giovani, e come?
Per essere felici bisogna essere veramente liberi. I giovani non amano sentirsi predicare la verità; quello che veramente cercano è la testimonianza di un amore autentico. Sono alla ricerca di qualcuno che li ami per quello che
sono, con i loro sogni, i loro limiti, i loro difetti, le loro speranze. Per questo vedono spesso nell’amicizia il valore più alto. Purtroppo molti di loro sperimentano ben presto la delusione di una falsa amicizia, quando si accorgono che è interessata. Scoprono che sono benvoluti soltanto quando sono utili e/o piacevoli, quando si comportano bene e vanno bene a scuola, quando hanno soldi o sono sexy. Scoprendosi strumentalizzati, vivono queste false
amicizie come autentici tradimenti. Una parte della trasgressione giovanile si può spiegare come provocazione nei confronti degli adulti, particolarmente dei genitori: «Vediamo se mi ami anche quando non mi comporto
come vuoi tu».

Il successo delle Giornate Mondiali della Gioventù sta a dimostrare che i giovani, anche oggi, ascoltano volentieri chi parla loro con autorevolezza e con esigenza: lo sperimenta anche lei nel suo lavoro di formazione?
Ho trovato molti ragazzi che, potendo, vorrebbero essere bravi, ma che non ci riescono. Di solito questi ragazzi hanno l’autostima molto bassa, in gran parte dovuta al fatto che gli adulti di riferimento – genitori, docenti ecc. – non risparmiano critiche nei loro confronti, dimenticando invece di lodarli quando lo meritano. Facciamo loro molto male pensando che sono una «generazione perduta». In realtà, stanno gridando con un linguaggio non verbale: aiuto!
Arrivano a un punto di scoraggiamento tale che non osano neanche cercare di migliorare. Nel loro tentativo di fuga da una realtà che sembra loro troppo difficile e ingiusta, tendono ad aggregarsi con coetanei che hanno più o meno gli stessi problemi. Una volta che si forma il gruppo «problematico», diventa molto difficile che accettino un discorso autorevole ed esigente, semplicemente perché l’amicizia e la «fedeltà» nei confronti del gruppo impediscono loro di cambiare atteggiamento. Se invece si riesce a trasmettere loro la speranza che possono diventare così bravi come desidererebbero, allora possono accettare di aggregarsi a coetanei che, come loro, hanno la speranza di migliorare. Una volta creato un gruppo che si sente «in cammino verso la virtù», diventa relativamente facile motivarli ad ascoltare discorsi esigenti, perché hanno il desiderio e la speranza di diventare bravi.

Da quanti anni si occupa di orientamento e formazione dei giovani? Ci sono stati cambiamenti nel modo di vivere questa tappa della vita?
Me ne occupo da più di 25 anni. I cambiamenti dei giovani in questi anni sono stati enormi, ma, secondo me, ci saranno cambiamenti ancora più sensibili nei prossimi 10-15 anni.

Si può educare ancora, nell’èra di Internet, attraverso la lettura? Ci sono libri che consiglia?
Così come ci sono state tecnologie che non esistono quasi più, come il VHS, ho il sospetto che fra poco il libro, come supporto informativo sequenziale-cartaceo, possa scomparire, come sono scomparsi i papiri, le pergamene e le tavolette di argilla. Non è il libro ciò che conta, ma il contenuto del libro, la «storia». In altre parole è il «documento» che conta, non tanto il «formato del file».
Un ragazzo che ha visto una storia al cinema, di solito non vuole più leggere il «libro del film» (ci sono onorevoli eccezioni che confermano la regola, soprattutto fra le ragazze). Un ragazzo che inizia presto a usare il computer e che vede molti film alla Tv o al cinema, sviluppa un modo di acquisire le informazioni molto diverso da quello sequenziale proprio delle storie dei libri cartacei: si tratta di un modo che potenzia quasi tutti i canali sensoriali ed emotivi. La lettura di un libro gli appare qualcosa di molto povero, perché molte delle potenzialità sviluppate con il video non vengono coinvolte in quell’attività;
il risultato è che sente una profonda noia, che scatena una reazione di rigetto. Questi ragazzi «digitali» raramente hanno la pazienza di leggere una pagina intera, riga dopo riga, e di seguire un racconto sequenziale, pagina dopo pagina. Sono ragazzi che cercano «l’essenziale» e lo vogliono in
modo interattivo: perciò  leggono le pagine in diagonale e poi saltano alcuni capitoli: magari iniziano proprio con la fine, come con i Manga.
Il libro di Alessandro d’Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue mi sembra un capolavoro anche perché riesce a coniare nel formato cartaceo la tecnica di lettura dei ragazzi digitali: capitoli molto brevi, linguaggio molto orale e vivo: quasi «interattivo»; il capitolo, prima di finire, introduce già il successivo, così il ragazzo è motivato a iniziare il nuovo capitolo, prima di finire il precedente.

Se non è più così facile utilizzare i libri per la formazione di un ragazzo, quale metodo usa nel suo lavoro di formazione?
Nel mio lavoro con adolescenti, ho sperimentato e verificato l’efficacia di questo metodo: commento brani di film e faccio un uso misto di testo, video e audio. Questo metodo non può funzionare se il ragazzo ha meno di 13 anni e la ragazza meno di 12 anni. Le storie, i film, che uso di più sono queste (l’età indicata serve soltanto per dire in che momento può essere efficace un commento pedagogico del film; non mi riferisco all’età minima per vederlo): Star Wars (13-15); Il Signore degli anelli (13-16); Buchi nel deserto (13-16); Il Club degli Imperatori (14-17); Matrix I (> 15); I passi dell’amore (> 16); Seventeen again (> 16); L’ultimo dono (> 16); Quasi amici (> 17).

Nel mondo, specie in Europa, cresce la tendenza a spostare sempre più in avanti il momento di decisioni importanti quali la formazione di una famiglia: come valuta questa tendenza?
Io dico spesso ai ragazzi: Dio perdona sempre, gli uomini ogni tanto, la natura non perdona mai. Una volta si parlava di «fidanzamento». Oggi, questa parola è stata sostituita dal concetto di «stare insieme». Si tratta semplicemente di un «consumismo affettivo».
«Stiamo insieme», finché dura… In realtà, manca ordine nelle relazioni affettive. Siccome possiamo ingannarci, ma non possiamo ingannare la
natura, è lei che fa pagare a questi giovani il conto del loro disordine: il prezzo è caro, particolarmente per le ragazze, le quali, di solito, sono quelle che hanno iniziato «il gioco dello stare insieme». Dopo alcuni clamorosi fallimenti (di solito tra i 13 e i 19 anni) i giovani rischiano di diventare cinici e di non credere più al matrimonio, alla famiglia, alla fedeltà, all’amore. La mia valutazione di questa tendenza è che ci porti alla sterilità e all’invecchiamento demografico, come si può già vedere. Con il tempo ci sarà, come capitò alla fine dell’impero romano, una sostituzione demografica con gente appartenente ad altri popoli che, su questo punto, hanno un atteggiamento più sano, perché sono più rispettosi della natura umana.

I modelli: da sempre i giovani sono affascinati dal mondo dello spettacolo: cinema, teatro, musica, sport. Come si può aiutarli a distinguere i buoni dai cattivi maestri?
I giovani, come gli adulti, sono affascinati dal successo.
Soprattutto adesso che molti di loro hanno l’autostima molto bassa. Pensano che con il successo otterranno quella considerazione che a loro manca... e che questa considerazione sarà la porta del loro paradiso (un po’ come il lavoro per Will Smith nel film Alla ricerca della felicità). Ma il successo di queste «star» porta a una felicità soltanto apparente, come mostrano le loro vite quando hanno smesso di «essere famosi». Per i giovani di oggi èmolto difficile distinguere tra buono e cattivo perché è molto difficile distinguere tra vero e falso. Pensano che «il male» è ciò che si fa con cattiveria. Siccome non fanno quasi mai niente con cattiveria, non vedono perché non dovrebbero poter fare certe cose che gli adulti non vogliono che facciano: «Che male c’è?» si sente chiedere spesso.
In realtà il male è quello che si fa con disordine, ma loro fanno fatica a capire quale sia l’ordine giusto (basta guardare in certe camere da letto). E poi, anche se lo sapessero, bisognerebbe vincere la noia, la mancanza di voglia...; ma sono pochissimi i giovani capaci di gestire la noia o di fare con motivazione delle attività senza voglia. Penso che la cosa migliore sia dare loro una motivazione che sia superiore al «successo», e che li avvicini il più possibile alla vera felicità.
L’unico modo di aiutarli a essere sé stessi è quello di far loro sperimentare l’amore autentico, che solo un vero cristiano può dare.

Oltre alla famiglia e alla scuola, quale le sembra il ruolo di altre agenzie educative, come quella che lei dirige a Lugano?
Oggi è molto difficile educare senza l’aiuto di un’agenzia educativa dove i ragazzi possano trovare un ambiente sano. La scuola e la famiglia, per certi aspetti, sono veramenteinsufficienti. Coloro che non cercano l’aiuto diagenzie educative per gestire il tempo libero dei loro figli finiscono spesso per scoprire, con sorpresa, che questi si ritrovano «per strada» con gli amici, senza scopo, senza ordine, di negozio in negozio... Un «divertimento noioso» che crea in loro il bisogno di «sfogarsi» dal venerdì alla domenica con delle feste in discoteca che sembrano non finire mai.

Si dice che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce: che cosa si può fare affinché il «rumore della foresta che cresce» sia più avvertito dall’opinione pubblica?
Quello che sto cercando di fare a Lugano è creare le condizioni per recuperare quei ragazzi che «vorrebbero essere bravi ma che non ci riescono». Ho creato con degli amici un’accademia di tipo liceale (www.everest-lugano.ch), orientata verso il futuro, in un ambiente dove i ragazzi abbiano la possibilità di sperimentare un tipo di scuola che, per loro, sia bella e motivante. Siamo partiti a settembre con 9 ragazzi. Per il momento tutti sono entusiasti: tanto loro come i genitori. Questo modo nuovo di «fare scuola» sta attirando molto l’attenzione dell’opinione pubblica e contribuirà sicuramente a creare delle condizioni migliori per le giovani generazioni.

venerdì 21 settembre 2012

Storytelling per insegnare ai bambini, meglio che una lezione?

Molto il voga per i pubblicitari di questi tempi, molto attuale come metodo di marketing e molto efficiente per insegnare ai bambini. Stiamo parlando del metodo di Story telling, in soldoni: raccontare storie per appassionare e coinvolgere.

Vi proponiamo una riflessione uscita ieri sul sito www.ilsussidiario.net che parla proprio di questo modo particolare e attraente di fare lezioni in classe.

Eccola qui, e buona lettura!


SCUOLA/ Perché i bambini preferiscono un racconto a una lezione?




Già con interventi precedenti ho cercato di mostrare in che senso, e in che cosa, il pensare la storia da parte dei bambini non possa che essere assai diverso da quello degli adulti. Abbiamo visto come, non spiegandosi una realtà umana come l’esito di una situazione precedente, essi “non vedano”, in sintesi, il nesso storico di causa-effetto; ossia il vero e proprio perno del ragionare storico adulto. Ma poi, ancora. Riflettiamo su quei concetti “generali” di cui lo storico si serve per dare ordine, senso, coerenza alle informazione che raccoglie e alle interpretazioni cui giunge, come quelli – indico a caso – di società, evoluzione, crisi, economia, sistema politico, civiltà, classe, gerarchia sociale, ecc. Sono tutti strumenti essenziali del suo leggere ed esporre la storia, quale che sia il genere di storiografia cui egli si dedica. Ma per un bambino? Non ci spiegano forse gli psicologi dello sviluppo – o non può osservare empiricamente chiunque – che fin verso i 12 anni bambini e ragazzi non usano e non pensano i concetti generali astratti, come appunto sono quelli? Se è così, un discorso storico costruito su quel tipo di concetti risulterà vuoto di senso e di interesse per i bambini; tutt’al più suscettibile di essere imparato a memoria e subito dimenticato. Con quale risultato, poi, di gusto e passione per la storia, ciascuno intende.
Eppure, provate ad aprire un sussidiario. Già dai titoli dei capitoli, come “La civiltà egizia”, “La democrazia ateniese”, “La crisi della repubblica romana”, ecc., e a scendere poi nel testo (dai classici elenchi di “fonti scritte, orali, iconografiche” ecc, o ai richiami, senz’altro, ai “tre punti essenziali: cronologia, contemporaneità, durata”), o alle varie “mappe concettuali” (appunto) per sintetizzare i “quadri civiltà”: a dominare sovrani sono  proprio concetti astratti. Tal quale, riassunto in pillole, quel che offrono i manuali delle superiori. Per non dire dei poveri bimbi di prima e seconda costretti a imparare e a (fingere di) usare concetti di rarefatta astrattezza, come  “durata, contemporaneità”, ecc; nella un po’ patetica pretesa che ciò sia un “prerequisito” per avviarsi alla storia...
Parlo solo della storia? No, evidentemente. Perché in qualsiasi ambito ­ disciplinare  – in italiano, in geografia ... ovunque – i sussidiari, fateci caso, presentano la stessa caratteristica: di puntare  in primo luogo e il prima possibile a far acquisire concetti generali astratti: che per i bambini non sono strumenti di pensiero e di comprensione! E se quel che sto dicendo ha un fondamento, sta qui un nodo di fondo, e drammatico, per la nostra scuola.
Ma restiamo alla storia. Quale può essere il modo di pensarla specifico dei bambini? Un punto di partenza a mio avviso imprescindibile (ma in genere invece pochissimo considerato) sta nel dato clamoroso dell’enorme attrazione che su di loro, fin da piccoli, esercita la dimensione del passato (o meglio, del “tempo altro”). Si pensi solo a come le parole “c’era una volta” siano una formula magica che basta ad affascinarli; o alla frase rituale per introdurre i giochi di ruolo: “facciamo che eravamo”, al passato imperfetto... E’ un elemento “strutturale” del loro modo di essere, che fa tutt’uno con il carattere prevalentemente narrativo del loro pensare. Perché questo è il dato essenziale, di fondo: i bambini leggono, si spiegano la realtà “per storie”. Non occorre neppure citare, come già ho fatto, Bruner e Steiner.
Ascoltate un bambino che spiega qualcosa: “C’era questo... e poi questo... poi lui ha detto...”.  E’ un continuo ricorrere a uno svolgersi nel tempo. Sono “storie” che si traducono e “vengono lette” attraverso l’immaginare: un pensiero dunque a un tempo narrativo e immaginativo. Si rifletta in quanta parte il giocare, ossia per i bambini lo sperimentare se stessi e il mondo, vuoi con un’automobilina, con la bambola o con i giochi di ruolo, sia in realtà un raccontarsi e un immaginare insieme, o un raccontarsi per immagini, o un immaginare attraverso racconti. Non sarà su questo fondamento che potrà e dovrà basarsi un rapporto vivo e autentico con la storia?
Così, la necessaria fase preparatoria nelle prime classi potrà puntare a esercitare e potenziare la capacità di pensare per storie facendo vivere i bambini in un’atmosfera di storie (fiabe, racconti, la loro storia personale): dunque, fra l’altro, praticando, usando le categorie di tempo, e non mirando a un inutile, o dannoso, formalizzare i concetti di tempo. (A proposito: a parlare i bambini imparano studiando i concetti di soggetto e predicato, o invece  parlando?). A partire di qui ci si potrà gradualmente accostare alla storia. Magari anche passando attraverso l’esperienza di udire e vivere e raccontarsi e drammatizzare miti: cioè in qualche modo sperimentando quelle forme di spiegazione del mondo attraverso racconti, appunto, che erano proprie del mondo antico, e così entusiasmanti per i bambini di 8 o 9 anni. Ma poi, la storia vera e propria di quei popoli: che sarà viva, bella, coinvolgente se proposta non con astrazioni ma come uno svolgersi di storie di persone “vere”, e di ambienti, di mentalità, di costumi; presentate in forme tali da consentire ai bambini di farsene immagini viventi.
E in questo sarà essenziale il raccontare e il proporre immagini da parte dell’insegnante, ma insieme il cercare, l’esplorare, il ricostruire anche artisticamente da parte dei bambini, il loro impersonare  personaggi e scene della storia studiata; il loro “imparare facendo”, insomma. Una storia di persone con cui stabilire, immaginandole, un rapporto umano, e in cui anche trovare modelli cui guardare con ammirazione, o deprecazione: e sappiamo quanto essenziali per i bambini siano i rapporti umani e i modelli cui riferirsi. Ma anche, così, una storia profondamente vera: di persone che, come è nella realtà storica e umana (e troppo spesso dai manuali non traspare), si sono trovate a operare scelte difficili o drammatiche fra opzioni  niente affatto scontate. Ciò che i bambini comprendono benissimo. Una storia, svolgimenti, infine, di cui i bambini sono in grado  di darsi spiegazioni anche profonde, purché non si pretenda che utilizzino le categorie di causa-effetto, come si è detto; ma invece quella di scopo. A loro infatti risulta chiarissimo che una persona agisca in un certo modo perché ha quei certi desideri, quelle finalità, quelle intenzioni: è così che – osservatelo – essi si spiegano i comportamenti delle persone con cui sono in contatto.  
Che un insegnare storia con questi criteri sia possibile lo mostrano ormai molti esempi di pratiche scolastiche. Ma vorrei infine segnalare un esempio straordinario: quel capolavoro che è la Breve storia del mondo di E. H. Gombrich (Salani) è scritto proprio con questi criteri. Offre una continua serie di esempi di come si può proporre la storia secondo il pensiero dei bambini. E i bambini lo leggono, o lo sentono leggere, con inesausto entusiasmo.



mercoledì 19 settembre 2012

III Congresso Internazionale sull'educazione omogenea




Continuano a mostrare la loro forza innovativa e la loro efficacia le scuole omogenee o single-sex: lo conferma il prossimo III CONGRESSO INTERNAZIONALE  il cui titolo “Panorama attuale dell’educazione omogenea in Colombia e nel mondo”. A Bucaramanga in Colombia i prossimi 20 e 21 settembre avrà luogo un  convegno aperto ai professionisti dell’educazione e ai genitori, organizzata dalla Asociación Latinoamericana de Centros de Educación Diferenciada (ALCED).  L'obiettivo del convegno sarà quello di riflettere sulle nuove ricerche, in merito all’educazione differenziata, che possono aiutare a fornire nuove intuizioni sulle caratteristiche specifiche di apprendimento nei bambini.
Saranno presenti ospiti e relatori internazionali esperti di questi temi. Tra questi anche la scrittrice argentina Elisabeth Vierheller, e proprio il suo volume “Nuevo paradigma escolar, Edcaciòn Single-Sex o Diferenciada” verrà presentato durante il congresso.
Per saperne di più potete andare sulla pagina Facebook del convegno, o sul sito.


lunedì 17 settembre 2012

Aurora raccontata dalla coordinatrice - parte 2





Come promesso, siamo pronti a farvi fare un altro giro nella scuola dell'infanzia targata FAES. 
Lasciamo la parola a Wanda Sartori Crico.
(Qui trovate la prima parte di intervista)

Come si può spiegare Aurora ai genitori? 
Per la mia esperienza ho visto che ci sono due modi di approcciare Aurora dal punto di vista genitoriale che sono entrambi scorretti: il primo si ha quando i genitori, poiché Aurora ha una didattica avanzata strutturata molto stimolante, portano da noi i bambini con la speranza che diventino dei geni; l’altro approccio è quello che vede il genitore pensare “Povero bambino quante attività, ma quando gioca e fa il bambino?”.
Noi non facciamo tutta questa attività stimolante perché i bambini diventino geni, noi giochiamo già con la logica matematica ai tre anni ma l’obiettivo non è produrre il genietto treenne che legga e faccia di conto; noi piuttosto proponiamo queste attività perche tali ambiti sono già nell’interesse del bambino.
Per poter fare didattica nella scuola dell’infanzia non si devono dimenticare una base fondamentali: la base ludica. Ogni attività didattica infatti viene proposta dalla maestra e vissuta dal bambino come un gioco, perché a 3 anni vivere è giocare; ogni cosa deve essere vissuta come un gioco altrimenti non funziona, non è che il bambino partecipa poco, il bambino non partecipa proprio.


Cosa vuole dire fare tutoria a un bambino tra 3 e 5 anni?
Siamo totalmente inseriti nel progetto Faes, anche se i nostri alunni sono molto più giovani, e dunque offriamo anche noi la tutoria, che è uno degli elementi per cui Faes si distingue dalle altre scuole.
Siamo così organizzati, abbiamo una maestra incaricata di classe, che è la tutor di tutti i bambini di quella classe, accanto a questa figura abbiamo una serie di maestre di compresenza.
La tutor è una vera tutor e ha esattamente le stesse funzioni che svolge all’interno delle altre scuole Faes, ovviamente il tutorato di un bambino della scuola dell’infanzia è molto diverso da quello di un liceale. Il liceale è l’assoluto protagonista della sua relazione di tutoria invece un bambino della scuola dell’infanzia neanche lo sa di avere una tutor, però è una figura molto importante lo stesso per la sua crescita e il suo periodo alla scuola materna. La tutor di un bambino di 3 anni conosce il suo tutorato attraverso l’osservazione nella vita quotidiana, vedendo il bambino agire e, ovviamente, anche relazionandosi a tu per tu; non capiterà mai di vedere un bambino seduto a parlare con la sua tutor come invece accade per un liceale. La parte di della tutoria di relazione genitori-tutor è assolutamente identica a qualsiasi altro livello: è la sede di uno scambio di informazioni innanzitutto dalle quali emerge un quadro più oggettivo di come è veramente il bambino, e questa oggettività consente di capire meglio quali sono i suoi punti di forza, che sono quelli su cui io devo appoggiarmi nel lavoro educativo per migliorare quelli che sono i punti di debolezza. Occorre quindi che io conosca bene il mio bambino e sappia fare questo quadro. In sede di colloquio di tutoria si stabiliranno le strategie: capiamo bene come è il bambino, capiamo bene quale è l’ambito su cui deve lavorare adesso quindi qual è la priorità educativa per lui in questo momento, e insieme elaboreremo piccole strategie educative per raggiungere il risultato sia a casa che a scuola.
Faccio un esempio che aiuta a capire questo concetto: vedo che la mia bambina fa molti capricci per mettere a posto, butta per aria le scarpe, in sede di colloquio parlo con la maestra che mi dice che anche in classe la vede fare più fatica ad offrirsi per riordinare, non è interessata all’ordine e decidiamo che è il caso di lavorare su questo piccolo problema. Una strategia potrebbe essere che le do piccoli incarichi sull’ordine a scuola e a casa posso fare lo stesso: a scuola le verrà chiesto più spesso di aiutare a mettere in ordine i giochi e il suo incarico a casa potrebbe essere che le sue scarpine appena arrivata se le mette via lei e si tira fuori le ciabattine da casa.
Deve esserci quindi una sinergia tra casa e scuola, una sinergia molto pratica fatta di piccolissime cose, piccolissimi incarichi che aiutino a crescere e a responsabilizzare. Gli incarichi sono infatti l’altro molto positivi proprio perché responsabilizzano il bambino: il bambino sento molto un incarico quando glielo viene dato, ne va molto fiero, si sente grande e partecipa al bene comune con il suo incarico.


Tra le attività proposte avete l'insegnamento della lingua inglese, come viene sviluppato? Aiuta inserire l'inglese alla scuola dell'infanzia 
I nostri bambini fanno tutti i giorni una lezione di inglese. Partiamo dai 30 min nei 3 anni e arriviamo fino a 40-45 min nei 5 anni. Il metodo è di tipo “full immersion”: la maestra di inglese parla soltanto inglese coi bambini, anche se i bambini sanno che capisce l’italiano. Abbiamo deciso di non avere insegnanti di inglese madrelingua perché con gli anni abbiamo visto che i bambini sono più tranquilli e sereni all’idea di potere avere una relazione con questa figura, il fatto che lei parla in inglese e loro rispondono in italiano e vengono capiti rassicura molto e facilita la loro relazione.
Ovviamente mezz’ora a disposizione per una lingua straniera al giorno non è assolutamente sufficiente per produrre un bilinguismo, però vale la pena lo stesso farlo: i bambini ampliano il loro mondo sonoro e il loro mondo fonetico, infatti sono completamente in grado di riconoscere ed emettere suoni che non appartengono alla lingua italiana. Questo perché sono in pieno periodo sensitivo del linguaggio e dunque per loro imparare altri suoni è semplice; basta pensare a quanto è importante il TH in inglese se il suono si acquisisce da piccoli viene facilitato lo sviluppo della lingua per il futuro.
In 3 anni vengono toccati tanti ambiti: famiglia, corpo umano, vestiti, scuola, animali domestici, colori e altri ancora, e i bambini imparano sui 300-350 vocaboli.
Si da per conosciuta una lingua straniera quando si conoscono 700-750 vocaboli, parliamo ovviamente di una conoscenza di base infatti quello che non imparano all’asilo sono le strutture per poter emettere una frase. Bambini di 5 anni che emettano una frase ne abbiamo veramente pochi, e quelli che sono capaci la frase è sempre elementare “My name is Carlo” ma sono davvero pochi. Però se la base è già buona sarà molto più facile imparare le stutture e continuare a studiare la lingua.
Infatti quello che è positivo è che lo studio della lingua inglese viene ripreso subito in prima primaria e l’impatto per loro non sarà spaventoso perché è una materia a loro famigliare. Inoltre hanno un vissuto gradevole che faciliterà il loro approccio a tale materia alla scuola elementare, infatti le maestre di inglese della scuola materna, non essendo facilmente comprensibili dai bambini poiché parlano una lingua a loro sconosciuta, si aiutano a farsi capire utilizzando canzoni, balli, mimi, disegni, raccontando storie con i cartelloni e via dicendo, insomma tutte attività che i bambini trovano divertenti.

venerdì 14 settembre 2012

Aurora raccontata dalla coordinatrice - parte 1


Abbiamo proposto ieri un articolo riguardante la scuola materna e le difficoltà che si possono affrontare.
Oggi vogliamo presentarvi la nostra proposta di scuola materna attraverso le parole di Wanda Sartori Crico, coordinatrice di Aurora, scuola dell'infanzia Faes, scuola materna che cerca di non creare bamboccioni! 
In questo post troverete la prima parte, in cui si parla del metodo educativo e didattico, a breve la seconda parte che ci aiuterà ad entrare nel mondo dei piccoli allievi di Aurora e nel frattempo date un'occhiata a questa presentazione. 




OPTIMIST, il vostro metodo didattico, di cosa si tratta?
"Totalmente inserito nel progetto educativo è il nostro metodo didattico di cui ci avvaliamo e che ci siamo proprio comprati dall’università: OPTIMIST. Optimist perché prende il nome dalle categorie della barche a vela, e la categoria optimist è la più piccola, per i bambini più piccoli barchetta monoposto.  
Optimist ha due presupposti, uno neurologico e uno pedagogico.
Il presupposto neurologico deriva dalla scoperta ormai trentennale che il sistema nervoso non è completo alla nascita ma va ancora completandosi e maturando per alcuni anni. Quindi alcune attività sono più stimolanti per la maturazione del sistema nervoso: tutte le attività Optimist hanno una serie di obiettivi didattici, educativi pedagogici, sempre è presente un obiettivo a medio o lungo termine di interesse neurologico.
Faccio un esempio per chiarire questo concetto: i nostri bambini tutti i giorni fanno una audizione musicale cioè ascoltano un pezzettino di musica classica, cominciamo con 5 min quotidiani di ascolto nei 3 anni e arriviamo ai 15 minuti nei 5 anni.
Il repertorio è stato studiato non deciso da noi, ci è arrivato così e rientra nel metodo; è presente molta musica barocca, molto Mozart e qualche assaggio di altri autori. Il primo obiettivo è quello di gratificare il bambino: non c’è bambino che non faccia volentieri l’audizione, anche perché è studiata in tempo e in repertorio sulle caratteristiche dell’età, quindi particolarmente adatta. Il secondo obiettivo è quello di incominciare a dare una buona educazione musicale: ascolta buona musica. Ma l’obiettivo più importante dell’audizione è quello neurologico perché hanno studiato e visto che i bambini che a questa età vengono stimolati a questo tipo di musica sono più capaci quando crescono di concentrazione intellettuale, di attenzione all’ascolto verbale e sono più abili nell’acquisire lingue straniere. Una cosa piccolissima che ha dei grossi effetti in realtà.

Il presupposto pedagogico di Optimist è quello di dare lo stimolo tempestivo nel momento del “periodo sensitivo” di tale stimoli.
Mi spiego meglio. Il periodo sensitivo è un momento temporale in cui il bambino in età evolutiva è particolarmente capace di acquisire una abilità; per esempio un bambino tra i 6 e i 18 mesi è nel periodo sensitivo del camminare il che vuole dire che se si fornisce lo stimolo minimo (nel caso del bambino che deve camminare è smettere di legarlo al seggiolino quando ci si accorge che prova ad alzarsi in piedi, ma lo si mette in posti in cui il bambino è più libero) il bambino da solo comincia a fare tutta una serie di esercizi per staccarsi e iniziare a muovere i piedini, proprio perché è nel momento sensitivo al camminare. Ovviamente poi può essere che è un bambino coraggiosissimo e come capisce che sta camminando si stacca e va avanti, come può essere un bambino più fifone che deve essere stimolato ancora di più.
Noi a scuola facciamo la stessa cosa in tutti gli ambiti, diamo stimoli minimi per aiutare il bambino a crescere.
I periodi sensitivi sono tantissimi e molto diversi tra loro, hanno durata differente e spesso si sovrappongono. Il momento fondamentale dei periodi sensitivi è tra gli 8 e i 10 anni di età, poi ce ne sono altri ma più rari (per esempio il periodo sensitivo per la politica è tra i 16 e 18 anni)."


L'offerta di Aurora prevede un'educazione personalizzata e positiva, ci può spiegare bene questi due approcci all'educazione?

"Crediamo molto nell’educazione personalizzata: significa saper rispettare ogni bambino per quello che è, punti forti e punti deboli, svilupparlo e farlo migliorare tenendo conto però della SUA personalità. Non cerchiamo di limare tutti affinché tutti si allineino nella casella ma al contrario: cerchiamo di fare in modo che ognuno possa sviluppare la sua personalità, il suo modo di essere. Noi cerchiamo di vivere un’educazione che sia personale, cioè rispettosa della persona e la personalità dell’alunno, il fatto di aiutarlo a migliorare le SUE personali caratteristiche, senza mettere il bambino in uno schema prefissato.

Altra cosa particolare che cerchiamo di vivere l’educazione positiva: stimolare buoni abitudini invece che reprimere abitudini sbagliate.
L’educazione positiva è proprio questo cercare di incoraggiare e sfruttare il positivo piuttosto che reprimere il negativo. Per esempio se ad un bambino dico “Non va bene che fai così”, per prima cosa il bambino ci rimane male perchéè stato sgridato, seconda cosa non gli offro degli strumenti per migliorare, forse lui fa così perché non gli è mai venuto in mente di fare in altro modo. Se invece io dico “Prova a fare così invece che cosà” il bambino non ci rimane male perché non l’ho sgridato e vede il problema, il comportamento da un altro punto di vista e capisce che c’è un altro modo di fare tale cosa.
Cercare di fare vedere qual è l’obiettivo: cosa guadagna se si comporti bene. Quando si riesce ad applicare ha degli effetti fantastici, perché non viene represso un comportamento sbagliato ma viene additato un comportamento corretto o migliore." 


giovedì 13 settembre 2012

L'asilo del bamboccioni?

Ripubblichiamo volentieri questo articolo apparso sul blog 27esimaora del CorSera in data 12 settembre 2012 perché offre interessanti riflessioni sull'educazione fin dalla scuola materna e sul ruolo dei genitori nell'educazione all'autonomia. 
Ringraziamo l'autrice Monica Ricci Sargentini 


In questi giorni si aprono le scuole. L’inizio dell’anno scolastico dovrebbe essere un momento gioioso per i bambini e i loro genitori. Ma per quelle mamme e, più raramente, per quei papà che portano i loro figli alla materna l’ingresso nella scuola sarà un percorso a ostacoli, una specie di incubo kafkiano che si chiama inserimento. Il programma varia a seconda dell’Istituto ma, quasi sempre, prevede un paio di settimane  in cui i bambini devono adattarsi al nuovo ambiente progressivamente per non subire traumi e quindi vengono accompagnati da uno dei genitori in classe: all’inizio restano per una quantità di tempo minima che poi lentamente aumenta fino ad arrivare al tempo pieno. Un fenomeno tutto italiano che spesso obbliga la mamma o il papà persino a prendersi le ferie.

L’anno scorso è toccato anche a noi. Alla scuola materna di Via Mantegna a Milano hanno deciso a priori, senza nemmeno conoscere i pargoli, che i nostri due gemelli dovevano iniziare con un’ora di asilo al giorno e uno dei genitori doveva sempre essere presente. Ma io ero a Londra per lavoro e questo ha creato un primo problema visto che Eva e Bruno erano in classi diverse. Quale madre snaturata va all’estero in un momento così importante (sottinteso potenzialmente difficile/traumatico) per i propri figli? Come mai non si sente immensamente in colpa? Ma tant’è le maestre hanno dovuto far buon viso a cattivo gioco e accontentarsi della tata (e di mio marito ovviamente). Io mi sono presentata quando ormai la settimana di passione era quasi finita. Ero in classe con Bruno che giocava senza problemi, dopo cinque minuti ho cominciato a friggere, la mia presenza mi sembrava totalmente inutile. Così ho chiesto alla maestra se me ne potevo andare visto che il bambino era chiaramente “inserito”. Ma lei mi ha risposto scandalizzata di no, che la prassi era aspettare almeno una mezz’ora a prescindere da come si comportava il pargolo.
La domanda che vi pongo è la seguente: perché dobbiamo drammatizzare in questo modo un evento naturale e piacevole come l’ingresso alla materna? Cosa devono pensare i nostri figli? Che li stiamo portando in un luogo pericoloso dove forse non vorranno restare perché sicuramente è meglio passare il tempo con la mamma? E poi ci lamentiamo dei bamboccioni che a trent’anni stanno ancora a casa con i genitori! Ma se glielo abbiamo insegnato noi tra mille premure, paure, apprensioni supportate dalla psicologia da salotto che è tanto in voga.
E’ vero. Un tempo i nostri nonni si facevano pochi problemi. E spesso crescevano i figli a suon di sganassoni. Ma oggi siamo passati all’eccesso opposto. Alleviamo i nostri bambini come se fossero fatti di porcellana, crediamo che possano rimanere segnati a vita se perdono un giocattolo che gli è caro, li copriamo fino a farli scoppiare di caldo per paura che si ammalino (non a caso siamo il Paese delle correnti d’aria e della cervicale), chiediamo se e cosa hanno mangiato come se ci fosse il rischio che muoiano di fame. Non capiamo che il regalo più grande che possiamo fargli è l’indipendenza, la capacità di camminare con le proprie gambe, di non temere gli altri.
In altre parti del mondo non è così. L’inserimento non esiste. Ne ho avuto la prova venerdì scorso quando è iniziato il primo anno di materna nella scuola britannica di Milano, Sir James Henderson School. Io e mio marito abbiamo portato i bambini in due classi diverse dove sono stati accolti con grande serenità. Dopo cinque minuti Eva dipingeva, Bruno giocava. Ho detto a una delle due maestre: “Vedo che il bambino è tranquillo, io andrei”. Lei mi ha risposto: “Signora prima se ne va e più facile sarà il mio compito!”.  Non potevo credere alle mie orecchie. Tempo pieno da subito e senza drammi. Certo qualcuno piangeva. E allora la mamma rimaneva lì per qualche minuto in più. Ma poi se ne andava comunque e il piccolo dopo poco smetteva. Come è  normale che sia, tranne che qui da noi. Tanto che la direttrice della lower school, Angela Dean, si è sentita in dovere di fare ai genitori il seguente discorso:
“Uno dei nostri obiettivi è l’indipendenza. Sappiamo che l’approccio in Italia è molto protettivo. Gli mettete sempre voi il maglione, gli preparate la cartella. Per favore cercate di cambiare atteggiamento e rendete i vostri figli più autonomi. Altrimenti a scuola si aspetteranno da noi lo stesso comportamento!”.
E’ ora che noi mamme italiane impariamo ad allentare la corda, a essere più leggere, a non rimuginare. Una volta una mia amica mi ha confessato di provare un  immenso piacere ad avere i figli che piangevano non appena usciva di casa: “Mi fa sentire la più importante”. Senza rendersi conto di quanto così li rendeva insicuri, negandogli la libertà di crescere cittadini del mondo.

mercoledì 12 settembre 2012

Società liquida e ragazzi tristi


Vi riproponiamo un post apparso sul blog FamiglieFelici, che ci fa riflettere sul cambiamento dell'istruzione e degli insegnamenti nell'era dei digital kids.



La scuola deve essere ripensata?  I figli della generazione digitale sono così diversi da avere bisogno di un modo diverso di insegnamento? Che tipo di servizio può, o per meglio dire deve, offrire un ambiente educativo i ragazzi e soprattutto alle loro famiglie?

Questo sono domande che ogni genitore potrebbe essersi posto mentre considerava la scelta della scuola migliore per i propri figli. In ogni caso è per rispondere a queste domande che intendiamo investire alcuni post, non necessariamente di fila, con l’aiuto di Louis Cardona, un creativo ed esperto educatore che ha messo a punto un innovativo approccio all’educazione dei ragazzi liceale che prenderà il via a settembre a Lugano.
Louis è da parecchi anni direttore del club giovanile della città svizzera ed è soprattutto un ottimo osservatore delle sfide e dei cambiamenti che gli adolescenti stanno affrontando oggi. Iniziamo perciò a chiedergli quali siano le principali prove che genitori ed educatori devono affrontare oggi per aiutare i giovani a crescere.
Per poter rispondere a questa domanda vorrei dapprima precisare come vedo la situazione attuale. Il terzo millennio avrebbe dovuto essere l’età del divertimento, della felicità, della libertà totale. Guardatevi in giro e che cosa vedete? Visi sorridenti? No, piuttosto facce scure, tristi, persone quasi disperate. Apparentemente liberi da ogni regola ma in realtà preda delle loro passioni. Questa è stata definita società liquida, grigia, resa fragile dal raggiungimento dei propri desideri invece che fortificata dalla lotta per conquistare i propri sogni. È piuttosto l’età del disagio. La questione è una sola: perché è successo? Qual è la ragione di questa disperazione? Che cosa dobbiamo cambiare? In quale modo possiamo aiutare i nostri ragazzi ad avere di nuovo la speranza?
E qual è la sua risposta a tutto questo?
Aiutarli a superare tre ostacoli che ritengo siamo le cause prima di questa situazione.
1. I ragazzi di oggi spesso non sono capaci d’impegnarsi se non ne sentono la passione: come si fa a studiare quando non si ha voglia? La “ferrea legge della voglia” rende schiavi di ciò che piace: il dovere del piacere. Il problema maggiore è che molti giovani sono convinti che fare sempre ciò che piace è il segno della propria libertà: il paradosso della “libertà che rende schiavi”
2. L’elettronica ha favorito nei  giovani “digital kids” atteggiamenti dinamici e creativi che spesso sono in conflitto con il modo tradizionale di fare lezione. Questo porta molti ragazzi validi ad avere un profitto scolastico insufficiente.
3. Lo sviluppo dei media ha cambiato la modalità di fruizione delle informazioni anche nei giovani di oggi: se nell’antichità bastava la parola a trasmettere, e se nell’ultimo millennio era necessaria anche la scrittura, oggi se il messaggio non è multimediale, se cioè non avvolge tutti i sensi, non viene raccolto se non in minima parte e viene perso e dimenticato rapidamente.

E le sue soluzioni innovative possono dare una risposta a questi problemi?
Certo che sì. L’Accademia Everest, che aprirà i battenti in settembre, e che non è un liceo, è il mezzo che abbiamo progettato per rispondere a questi tre problemi con tre soluzioni:
1.   L’educazione del cuore
2.  L’insegnamento proattivo
3. La neuropedagogia
Louis Cardona ci spiegherà come questi tre approcci funzionano in un prossimo post. Nel frattempo ci farebbe piacere sapere se siete d’accordo con lui nell’analisi della situazione attuale e nell’individuazione delle sue cause.