mercoledì 30 ottobre 2013

Patti Chiari raccontati dalla dottoressa Valentina Panna, docente dell'Ufficio Programmi Educazione Finanziaria

Abbiamo intervistato la dottoressa Valentina Panna, dell' Ufficio Programmi Educazione Finanziaria – Consorzio PattiChiari, che ci spiega di più sul progetto che segue insieme ad altri professionisti e che propongono alle scuole. La dottoressa è stata ospite delle scuole Faes lo scorso 12 Ottobre. 




Qual è lo scopo della vostra associazione?
Lo scopo del Consorzio Pattichiari è duplice: promuovere un insieme di iniziative per migliorare la relazione banca‐cliente su alcuni rilevanti aspetti quali la mobilità, la chiarezza informativa, l'assistenza e la sicurezza e diffondere l'educazione finanziaria con programmi originali, realizzati in stretta collaborazione con enti universitari ed esperti in materia, che aiutano a fare scelte economiche consapevoli. A tal fine collabora con le istituzioni nazionali e locali per sviluppare iniziative rivolte alla popolazione adulta e ai giovani, in particolare agli studenti, anche attraverso eventi sul territorio. Il Consorzio si caratterizza per una gestione aperta ai rappresentanti delle Associazioni dei Consumatori e al mondo accademico.


In quale modo viene svolta l'attività?
L’attività di educazione finanziaria viene svolta attraverso la diffusione di programmi didattici per le scuole di ogni ordine e grado, eventi di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, sessioni formative dedicate agli adulti in collaborazione con le Associazioni dei consumatori ed un sito internet (insieme ai social network dedicati) preposto alla divulgazione dei temi relativi all’educazione finanziaria.

In che modo le scuole possono collaborare? 
Le scuole interessate possono iscriversi on line sul sito www.economiascuola.it. Sarà poi cura del Consorzio individuare la banca tutor del territorio che sosterrà operativamente gli insegnanti coinvolti nelle lezioni.  

Perché ritenete che ci sia bisogno di educare alla "salute economica e finanziaria"? 
Perché analogamente all’educazione alimentare, stradale o sessuale è necessario che i nostri ragazzi acquisiscano delle competenze economiche utili per fronteggiare al meglio la vita di tutti i giorni.

Che tipo di ritorno avete delle vostre iniziative? 
L’entusiasmo degli insegnanti, dei genitori e il livello di preparazione raggiunto dagli studenti sono gli indicatori più immediati del ritorno del nostro lavoro. Sul lungo termine abbiamo inoltre avviato una serie di indagini che misurano il livello di diffusione in Italia della cultura finanziaria (cfr. ICF - indice di cultura finanziaria).
quali sono le più frequenti e significative carenze che riscontrate? Non ve ne sono molte. Sicuramente riuscire a coinvolgere le scuole e gli insegnanti, già ampiamente gravati da altre problematiche, a volte può risultare complesso e faticoso.   

In quale modo i genitori possono aiutare i figli a sviluppare queste competenze? 
Sicuramente dando “il buon esempio” in tema di risparmio e parlandone frequentemente ovvero condividendo con loro i momenti di gestione della vita domestica (fare insieme la lista della spesa, prelevare all’ATM, ….).

Bisogna essere esperti di borsa e finanza? 
Assolutamente no. E’ sufficiente sviluppare un po’ più di sensibilità e di senso critico sull’argomento.

In che cosa consistono le gioco-lezioni per i più piccoli? 
La invito a consultare Economiamo http://srd01.amicucciformazione.com/economiamo/. In aula o a casa, affiancati da insegnanti o genitori i bambini possono vivere un’esperienza “da grandi”: devono lavorare per guadagnare, spendere per le loro necessità e per il divertimento, pagare le tasse e, se lo desiderano, donare in beneficenza una parte dei loro dei loro risparmi. A breve inoltre sarà disponibile un libro di fiabe sull’educazione finanziaria ovvero una raccolta di fiabe dalle più famose a quelle meno conosciute contenenti moltissimi spunti utili per far riflettere i più piccoli sulla gestione del denaro.

lunedì 28 ottobre 2013

L'importanza del padre - guest post di Michael Dall’Agnello

I COMPITI DEL PADRE
Sono stati scritti molti libri sull’importanza della figura paterna per la crescita del bambino. Anch’io voglio condividere alcuni spunti che nascono dall’esperienza del mio lavoro di maestro e dallo studio pedagogico svolto all’interno della scuola in cui lavoro

La necessità di formazione
Una volta si viveva in una sorta di villaggio educativo in cui i valori erano comunemente riconosciuti e condivisi. Anche se non è mai stato facile, non c’era bisogno di spendere molto tempo per apprendere il mestiere di padre; s’imparava per osmosi, replicando ciò che si vedeva fare dai propri genitori. Oggi, per tutta una serie di motivi che non spetta a me analizzare, viviamo in una sorta di “società liquida” in cui niente è dato per scontato: quelli che erano considerati da tutti valori solidi -come la terra su cui si poggiano saldamente i piedi- hanno perso la loro evidenza. Non ci sono più né terra né sentieri ben segnati, ma mare aperto. Per questo c’è bisogno di formarsi. Tutti sanno camminare, ma non tutti sono in grado di navigare. Oggi c’è bisogno di imparare a navigare e tracciare rotte sicure, che ci permettano di progredire anche in mare aperto senza apparenti punti di riferimento immediati. Una coppia di genitori che non volesse affrontare il problema della propria formazione, somiglierebbe a quei naviganti che vogliono affrontare il mare aperto senza saper tracciare la rotta: finirebbe col naufragare.

Il principio di unità della coppia
Il figlio percepisce a pelle, sebbene non riesca sempre a valutare la cosa con sufficiente consapevolezza, che il senso della sua vita è nell’amore coniugale di papà e mamma e va là a specchiarsi per sapere qualche cosa di sé e per capire come potrà comportarsi… Il primo compito della moglie è quello di riservare al marito il primo posto nella sua mente e nel suo cuore. Il primo compito del marito è quello di onorare sua moglie, coltivando la massima attenzione alle sue qualità femminili” (Valentino Guglielmi, Ti amo, La Grafica – Verona). La soluzione di molti problemi scolastici e “non” dei bambini andrebbe cercata all’interno della relazione di coppia, invece spesso ci si ostina a intervenire sul bambino, senza capire che per curare i frutti bisogna agire sulla pianta. Quanti “papà-mammi” non capiscono che il problema palesato dal figlio va risolto all’interno del rapporto con le loro mogli e non nel clonare il loro ruolo! A scuola apprende molto più facilmente un bambino che percepisce come sereno il rapporto tra mamma e papà, anche se di condizioni sociali e culturali non elevate, piuttosto di un altro, pur di condizioni superiori, ma che vive in se stesso un conflitto tra i genitori.

La distinzione padre / madre
Attualmente, al di là dei fatti più appariscenti, come il proporre il matrimonio e l’adozione a due persone dello stesso sesso, stiamo assistendo ad una uniformazione dei sessi. Complice forse lo scambio delle funzioni nella società, che è condivisibile (le donne in campo lavorativo svolgono quasi tutte le mansioni che un tempo svolgeva solo l’uomo), s’è finito per confondere anche i ruoli, che invece appartengono al nostro essere. Anche se il marito rimane a casa più spesso di sua moglie, è come uomo che fa ciò che fa, ed è come donna che sua moglie dirige un’azienda mentre lui è un semplice impiegato. Il bambino ha bisogno di vedere una diversità di ruoli all’interno della coppia. Deve poter percepire e distinguere la femminilità e la mascolinità -che non è machismo-, altrimenti non riesce ad avere dei modelli in cui identificarsi da un punto di vista costitutivo, del proprio essere. Distinguere non è discriminare!

L’uso del tempo
Un giorno un mio amico, dirigente di una società, mi disse: “Posso dedicare poco tempo a mio figlio, ma cerco di dedicargli un tempo di qualità”. Purtroppo in campo educativo i tempi non siamo noi a deciderli, ma i nostri figli: fa parte del loro essere in crescita aver bisogno di tempi a loro dedicati e che non sono i nostri; anzi, più crescono più hanno bisogno che il papà riservi loro tempo. Paragonare l’educazione dei nostri figli a un lavoro può sembrare riduttivo, ma se dedichiamo così tanto tempo alle imprese professionali, a maggior ragione dovremmo dedicarne all’impresa più importante della nostra vita, quella di crescere i nostri figli. Un padre che non si prefigge di dedicare almeno dieci minuti ogni giorno -e talvolta anche di più- a “stare esclusivamente” con ciascuno dei propri figli, compromette seriamente il suo ruolo. Quante crisi di gelosia in meno ci sarebbero tra fratelli, ad esempio, se ogni giorno ognuno di loro ricevesse qualche minuto di attenzione “esclusiva” dal papà!

L’ascolto intelligente
Il tempo che dedichiamo ai figli ci deve servire per conoscerli sempre meglio: se li vogliamo amare, li dobbiamo prima conoscere, perché non si ama ciò che non si conosce; credetemi non è facile, perché a differenza delle cose, le persone sono in continua evoluzione. Più che un adulto, il bambino/ragazzo non è mai lo stesso del giorno prima, soprattutto oggi che è sottoposto a una quantità infinitamente superiore di stimoli di quella cui erano sottoposte le generazioni precedenti. Per conoscere nostro figlio bisogna ascoltarlo ogni giorno! Per ascoltarlo veramente, dobbiamo liberare la nostra mente da tutte le altre incombenze, almeno per qualche minuto. “Adesso ci siamo solo tu ed io!” è il messaggio che deve trasmettere un papà, più col suo atteggiamento che con le parole, a suo figlio, a sua figlia, anche quando sono piccoli. Un papà deve porre molta fantasia per trovare le occasioni per stare da solo con suo figlio, specie quando diventa più grande. Deve imparare ad “ascoltare anche con gli occhi”. Un mio amico lo faceva giocando a scacchi, o meglio suo figlio giocava a scacchi con lui, lui lo ascoltava giocando a scacchi… Insomma si prefiggeva di conoscerlo, cercando di recepire i messaggi che il figlio gli mandava attraverso i particolari del viso –gli occhi soprattutto, mai uguali a se stessi- e gli atteggiamenti che assumeva, senza tralasciare di ascoltare ciò che in quel momento poteva decidere di dirgli. Non è forse vero che le rivelazioni più intime da parte dei nostri figli le abbiamo avute proprio in questi momenti di “rilassata concentrazione”? Ognuno può escogitare i suoi modi: lo può fare quando accompagna il figlio a scuola, a giocare a calcio, o quando si fa con lui un giro in bici; l’importante è che ci sia intenzionalità, e perché questa ci sia, c’è bisogno di programmazione. Come non s’improvvisa sul lavoro, così non si può lasciare al caso l’arte di ascoltare; prima di tutto devo “voler ascoltare”, e quindi devo “mettere in agenda” i tempi dedicati all’ascolto, altrimenti andrà a finire che non lo farò.

L’alleanza con altre agenzie educative
Talvolta possiamo essere tentati, vedendo l’aria che tira fuori, di rinchiuderci a riccio all’interno della nostra famiglia, ma non funziona: tanto varrebbe che migrassimo su di un’isola deserta, visti i molteplici ambienti con cui inevitabilmente i nostri figli vengono in contatto. E’ molto più utile cercare delle alleanze con le altre agenzie educative, cioè le famiglie con cui veniamo in contatto, la scuola, lo sport e l’associazionismo educativo in genere. Il concetto di alleanza sottintende che, nonostante le inevitabili diversità di opinione, si possono trovare i modi per andare nella stessa direzione con spirito collaborativo per il bene dei ragazzi, purché ovviamente, almeno i genitori, abbiano tracciato una “rotta educativa” per i loro figli.

Il colloquio con Dio
Noi siamo persone, cioè esseri in relazione, e Dio è persona -anzi tre Persone-, e quindi essere relazionale pure Lui. Entrambi “abbiamo bisogno” di comunicare l’uno con l’altro. In questo dialogo personale, che si chiama anche preghiera, dobbiamo “parlare” delle questioni che più ci stanno a cuore, figli compresi, portando al colloquio proprio quelle novità –piacevoli o spiacevoli che siano- che abbiamo rilevato osservandoli come dicevamo sopra. Così come si fa quando si succhia con calma una caramella per assaporarne tutte le sfumature di gusto, similmente si può considerare quelle novità ricavate dall’osservazione nel colloquio con Dio. Se vogliamo conoscere veramente i nostri figli poi –ma anche noi stessi-, dobbiamo cercare di conoscere Dio, che è il loro –il nostro- Creatore, attraverso la sua frequentazione. Un padre che non parla dei suoi figli al Padre, corre il rischio di non comprendere buona parte della sua paternità.


Michael Dall’Agnello

venerdì 25 ottobre 2013

Laurearsi e studiare online? Le università online sono in crescita...e danno i loro frutti!

Sempre più studenti si iscrivono alle università online: rappresentano oggi il 2% del totale degli iscritti all’Università e il loro numero è aumentato vertiginosamente negli ultimi 10 anni. 
A svelarlo è un'indagine condotta dall' Università Telematica Niccolò Cusano di Roma, un'università telematica fondata nel 2006 e al primo posto fra le strutture riconosciute dal Miur per numero di laureati e attività didattiche proposte.


Nella ricerca si indagano quali sono stati i fattori che hanno influito sulla crescita delle università online. Primo fra tutti viene indicato il risparmio: frequentare un corso di laurea triennale a distanza permette, infatti, di azzerare o quasi i costi relativi al materiale didattico, ai trasporti e all’alloggio a fronte di una retta leggermente più alta rispetto alle università private offline più economiche.
Come secondo fattore viene indicato l’ampliamento dell’offerta formativa: tra le 34 facoltà disponibili negli atenei italiani 14 hanno il loro corrispettivo online, il che rende a portata di click contenuti e competenze prima fruibili solo in presenza.
Ma chi sceglie questa tipologia di università particolare e non canonica, sono per la maggior parte di età compresa fra i 23 e i 40 anni: lavoratori desiderosi di specializzarsi e studenti che non possono permettersi di studiare lontano da casa per gli alti costi che comporta la vita da fuori sede.
In un primo momento l’insegnamento on-line appare fonte di annullamento di alcune facoltà umane, di un incremento della pigrizia intellettuale, di un percorso educativo "irreale" per la mancata fisicità del rapporto e di un'alienazione degli studenti, ma le ricerche fanno emergere che i vantaggi che se ne traggono sono indiscutibili.
A poco valgono le critiche che assegnano alle università telematiche il ruolo di "laureificio", è necessario fare una distinzione tra le singole università: come per gli atenei pubblici e tradizionali, c'è chi fornisce un'adeguata preparazione e chi no, c'è chi è corrotto e chi no, non è possibile generalizzare. 
Chissà...dopo una social-izzazione dei canali di comunicazione si passerà anche ad una social-izzazione dell'istruzione?

giovedì 24 ottobre 2013

Tandem: un club per ragazze a Milano dove si impara a...essere donne!

E' online la pagina FaceBook dell'Associazione Tandem Club APS, un club per ragazze che promuove e organizza iniziative nell'ambito della gestione del tempo extrascolastico ed extrafamiliare per le ragazze dai 9 anni. Tandem affianca le famiglie nel loro compito educativo, proponendo loro attività formative, conferenze e quant'altro.
Presso una villetta liberty della zona Piola a Milano, Tandem Club APS si propone come un punto d'incontro, di formazione e di sano divertimento. In una struttura organizzativa affine al Club, le ragazze a partire dai 9 anni troveranno un ambiente che integra la formazione data dalle famiglie attraverso lo svolgimento di attività ricreative in un clima di amicizia e simpatia.

Vi lasciamo con un invito, un invito speciale per le ragazze...ma se vogliono le mamme possono venire a sbirciare!


SABATO 26 OTTOBRE non perdere il TANDEM FASHION LAB!!! 
Trova il tuo stile...senza dover cambiare il tuo armadio! 

Con l’aiuto di un’esperta imparerai come essere bella in poche mosse...cosa aspetti! 
Non potrai più dire "Non ho niente da mettermi!"



mercoledì 23 ottobre 2013

A scuola conta solo il DNA. Sarà vero?

Una tesi molto controversa quella che Cummings, forte della sua laurea ad Oxford e della fronte altissima da genio, ha pronunciato e subito contestata da Tristan Hunt, laburista, ministro per la scuola del governo ombra (e dottorato a Cambridge).
Senza disturbare alte cariche di stato possiamo dirci anche noi contrari, o comunque molto scettici, a questa tesi.


Il DNA e la predisposizione allo studio sicuramente contribuiscono a decidere la modalità con cui lo studente procede nel lavoro, ma la determinazione e l'impegno dove li mettiamo? La forza di volontà con cui un ragazzo e una ragazza si impegnano a dare il massimo dove sta? Nel DNA di certo ma sono elementi che si apprendono e si sviluppano anche. e soprattutto, grazie al contorno sociale, alle amicizie, alla vita, alla famiglia, alla scuola e in tutte le situazioni in cui ogni giorno lo studente si trova.

Qui trovate l'articolo di Paola De Carrols del Corriere che riporta questa notizia, i commenti e le spiegazioni.
E voi, che ne pensate?



A scuola? Conta solo il Dna: o sei dotato o no

La provocazione del consulente del ministro dell’Istruzione : «Mandiamo avanti i più dotati o saremo schiacciati dagli asiatici»

La scuola? Mediocre. Gli insegnanti? Quelli buoni sono un’eccezione. Gli studenti? In molti casi gli sforzi sono inutili. E’ il Dna a contare, non l’istruzione. Colpo di coda del consulente speciale del ministro per la scuola britannico: prima di lasciare il fianco di Michael Gove, Dominic Cummings mette in discussione per intero il sistema dell’istruzione pubblica con un manifesto di 250 pagine oggi al centro di un acceso dibattito.
DOTATI E NON - «Non vogliamo accettare quello che dice la scienza», sottolinea Cummings, perché non va di moda l’idea che non siamo uguali e non abbiamo le stesse possibilità, eppure le ricerche non lasciano dubbi: «Quello che un bambino è in grado di ottenere -precisa - è al 70% determinato dal suo patrimonio genetico». Ci sono i dotati, ovvero, e i non dotati: una realtà che la scuola non è in grado di capovolgere. Molto meglio, fa notare, «aiutare di più gli studenti intelligenti, anche se questo potrebbe portare a meno uguaglianza».
POLEMICHE - Una tesi molto controversa quella che Cummings, forte della sua laurea ad Oxford e della fronte altissima da genio, ha pronunciato e subito contestata da Tristan Hunt, laburista, ministro per la scuola del governo ombra (e dottorato a Cambridge). «Non vedo il senso in quello che dice», ribatte. Cosa vorrebbe Cummings? Un test sul quoziente d’intelligenza il primo giorno di scuola e una suddivisione in classi a seconda dei risultati? Non è un discorso antiquato, superato ed elitario? «L’obiettivo della scuola - sottolinea Hunt - deve essere quello di mettere tutti gli studenti nella posizione di dare il meglio di sé, il bagaglio genetico, francamente, non può essere né il punto di partenza, né quello di arrivo».
I RIVALI TEDESCHI E ASIATICI - Per quanto poco appetibile, il documento di Cummings contiene diversi spunti interessanti. Perché, si chiede, si insegnano tante materie inutili quando in inglese, matematica e scienze il livello dei ragazzi al termine del liceo è più basso che mai? Gli studenti di oggi si affacciano all’università senza rigore o disciplina. «Non si insegna più che per ottenere qualcosa bisogna darsi da fare e studiare sodo». E poi, sul mercato di lavoro, si trovano a competere con i tedeschi e gli asiatici. «Rischiamo di rimanere indietro».

martedì 22 ottobre 2013

Il costo della scuola e l'educazione

Volentieri pubblichiamo questo intervento di Mario Viscovi apparso originariamente su A tutto Sesto.

L'ing. Mario Viscovi è stato uno dei fondatori dell'Associazione Faes nel 1974 e per lunghi anni segretario generale. E' la sua una voce autorevole e piena d'esperienza alla quale lasciamo spazio ringraziandolo per avere ancora tutta questa passione per le scuole, la famiglia, l'educazione e soprattutto la verità.





Se si ammette che i genitori sono i primi e principali educatori dei figli (non lo Stato, non la Chiesa), spetta ai genitori responsabili anche la scelta di quelli che debbono essere gli educatori sussidiari, in primis della scuola. Questa scelta comporta logicamente l’assunzione dei costi dei mezzi educativi sussidiari: ciò rientra nei diritti e nei doveri di coloro che sono i titolari dei primi e principali educatori.
   La crisi economica che attanaglia l’Occidente ha costretto anche la quinta potenza economica europea, l’Olanda, a ricorrere a misure impopolari. Pochi giorni fa il re dei Paesi Bassi Willem-Alexander ha rivolto un accorato discorso al Parlamento chiedendo l’approvazione della proposta del Governo intesa a ridurre drasticamente il  welfare state, lo stato di benessere, al fine di permettere il graduale pagamento del debito pubblico. Ha dichiarato inoltre che i cittadini olandesi si devono convincere che lo Stato potrà intervenire sempre meno nei costi della sanità e della previdenza sociale; questi costi saranno a carico degli enti che i cittadini dovranno creare per garantire la continuità dei servizi ai quali la vita moderna ci ha abituati. Com’è possibile che gli olandesi accettino queste proposte senza fare la rivoluzione? Penso che lo potranno fare perché da sempre sono abituati a pagarsi la scuola, sia pure con un sostanziale sussidio da parte dello Stato. Infatti in Olanda i genitori possono scegliere – a parità di condizioni economiche – di mandare i figli alla scuola statale, o a quella cattolica, o a quella protestante o a una scuola indipendente. È un po’ quello che da noi auspicava alla fine degli anni ’60 dello scorso secolo il Ministro dell’Educazione Salvatore Valitutti.
   Finora i nostri politici hanno preferito non pagare i debiti rinviandoli alle generazioni future; non mi pare una buona politica: un genitore responsabile cerca di lasciare in eredità ai figli qualcosa di concreto, non dei debiti da pagare. Come è noto, il Ministero che più ci costa, che più ci crea debiti, è il MIUR, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. 
   Ed è dimostrato (anche se si tiene accuratamente nascosto all’opinione pubblica) che un alunno della scuola statale costa ben più che un alunno nella scuola non statale «paritaria» (quella cioè che garantisce i requisiti richiesti per avere la parità). E che pertanto lo Stato ci guadagnerebbe – cioè spenderebbe molto meno – se lasciasse ai cittadini e agli enti privati la gestione di buona parte delle sue scuole. Così la famiglia potrebbe scegliere non solo la scuola che rispetta i principi nei quali quella famiglia si identifica, ma anche la scuola che garantisce la migliore preparazione didattica.        
   A conferma di ciò, cito brevemente alcuni dati di confronto, rispetto alle scuole statali, riguardanti le scuole paritarie FAES (FAmiglia E Scuola) di Milano, create quarant’anni fa da un gruppo di genitori sensibili alla responsabilità di cui sopra:

Costo annuo/alunno in euro
– Materna statale 6116                   
– Materna FAES   3500

– Primaria statale 7366                   
– Primaria FAES   4300
– Secondaria I°ciclo statale 7688   
– Secondaria I°ciclo FAES   5100

– Secondaria II° ciclo statale 8108  
– Secondaria II° ciclo FAES   4850

Per motivi di sensibilità sociale, il FAES eroga oltre 200.000 euro/anno come agevolazione sulle rette ad alunni meritevoli e di famiglie bisognose (circa l’8% del totale rette). Nonostante la dichiarata parità delle scuole riconosciute paritarie, gli enti pubblici contribuiscono molto limitatamente alla copertura dei costi delle scuole non statali:
– la Regione Lombardia, in base a criteri di merito e di bisogno, concede ad alcune famiglie circa 500-550 euro/anno/alunno;
– lo Stato eroga alle paritarie FAES un contributo annuo/classe che assomma a circa 700 euro alle Materne, 90 euro alle Primarie, 80 euro alle Secondarie I° ciclo; niente ai licei classico e scientifico.

   E pensare che la Fondazione Agnelli nel 2012 ha riconosciuto il liceo classico FAES come il migliore di Milano.

lunedì 21 ottobre 2013

Studenti italiani vs Europei: spese maggiori ma risultati più bassi?

Un'analisi su alcuni dati della scuola in Europa mostra come nella scuola primaria i bambini italiani costano ogni anno più dei loro coetanei francesi, spagnoli e olandesi. Inoltre hanno più ore di insegnamento rispetto ai danesi e ai finlandesi che pure, in ogni test, risultano gli studenti modello tra i paesi d'Europa. Visti i risultati, sono soldi ben spesi i nostri? 


Fonte Panorama 25 Settembre
Infografica di Sergio Ardiani

venerdì 18 ottobre 2013

Come educare i propri figli all'uso del denaro?


“Tutti a scuola di Cittadinanza Economica ‐ Come educare i figli all’uso consapevole del 
denaro?” è il titolo della giornata voluta dall’Associazione FAES e dal Consorzio Patti Chiari per sensibilizzare gli adulti sulla necessità di avvicinare i propri figli a una cultura  di maggiore attenzione e responsabilità nella gestione economica della propria vita.

L’incontro, tenutosi sabato 12 ottobre nella nuova sede Monforte di via Amadeo, ha visto l’ormai classico “sold out” con tutte le aule messe a disposizione per i vari percorsi formativi al massimo della capienza.

Divisi in base alle fasce d’età i diversi seminari:

“Spiccioli... di fiabe un laboratorio-gioco dedicato ai bambini della scuola dell'infanzia e primi anni della scuola primaria, con la teatralizzazione di alcune fiabe didattiche.


“Vivere in una comunità: perché mamma e papà pagano le tasse?”
 una gioco-lezione per i bambini di III e IV primaria.


“La banca spiegata ai bambini”
 per i ragazzini di V primaria e  I secondaria.    


“Dalla paghetta al bilancio famigliare: impariamo il valore del denaro” incontro per i ragazzi di II e III secondaria.

E i genitori? Non poteva mancare un appuntamento a loro dedicato con il workshop “Figli e denaro: verso il futuro” (per chi volesse riascoltare la conferenza la trovate qui) al quale hanno partecipato come relatori il professor Francesco Saita, docente ordinario di Economia degli intermediari finanziari e Direttore CAREFIN  all’Università Bocconi e la professoressa Antonella Marchetti, docente di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.


Obiettivo di tutti gli appuntamenti mettere al centro l’educazione dei giovani al risparmio ed all’uso consapevole del denaro attraverso scuola e famiglia.










mercoledì 16 ottobre 2013

Il mese delle Famiglie? Ottobre a Rimini!!

Il Mese delle Famiglie, a Rimini,  torna in Ottobre per una settima edizione ricca di eventi, quali convegni e conferenze, laboratori, percorsi per genitori in attesa e bebè, letture e mostre, spettacoli, feste e giochi. 

Il tema di quest’anno è “Essere genitori oggi: educare ai beni comuni”, beni che sono importanti per il benessere di una comunità e di cui ognuno di noi è responsabile.


La presentazione della settima edizione del mese delle famiglie:



Tante iniziative che hanno spinto ad allungare l’evento, che si protrarrà anche a novembre e dicembre. “Un programma così ricco – commenta il vicesindaco Gloria Lisi - è stato possibile grazie al fondamentale contributo delle associazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale del territorio riminese, che hanno collaborato con il Centro per le famiglie proponendo diverse attività di riflessione, incontro e gioco per i grandi e i più piccoli. E’ grazie alla loro attività e al contributo di diversi sponsor che riusciamo anche quest’anno a proporre un Mese così ricco, nonostante i tagli e le difficoltà economiche. Siamo molto contenti della risposta del territorio”. Collaborano al Mese delle famiglie anche l’Ausl, l’Università di Bologna e la Provincia, che ha dato il patrocinio all’evento.

Il Mese delle Famiglie ospiterà quest’anno, tra gli altri, il professor Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, il pedagogista ludico Antonio Di Pietro e il pediatra e neonatologo Alessandro Volta, che parleranno di famiglia come bene sul quale investire, di crescita come processo dinamico, di regole e di gioco.

Tanti i laboratori per i più piccoli, dedicati alla musica, miniolimpiadi, i laboratori con i cavalli, il percorso sensoriale “Meravigliose Scoperte”. A dicembre invece da segnalare la Maratona di Lettura: l’evento sarà a conclusione dell’iniziativa a sostegno dei Lettori Volontari in Pediatria e Oncologia pediatrica, realizzato dal Centro per le famiglie – progetto Ci.vi.vo. Durante i mesi di ottobre, novembre e dicembre sarà possibile acquistare un libro nelle librerie aderenti al progetto, da regalare al reparto di Pediatria dell’ospedale Infermi di Rimini.

Per i neogenitori tanti appuntamenti dedicati, come il corso di massaggio, nati per leggere, camminate ed esercizi con passeggini e bebè, i laboratori per i bimbi e per i genitori. Anche quest’anno inoltre non mancheranno le feste per tutte le famiglie: evento clou sarà domenica 20 ottobre “La festa delle Famiglie” in piazza Tre Martiri, che richiamerà migliaia di persone nel cuore della città. Particolarità di questa edizione la presenza del Club Alpino Italiano Rimini che allestirà una parete per arrampicate per bambini sopra i 7 anni. Nell’altra piazza della città, Piazza Cavour, ci sarà invece la Festa del Mercato Agricolo di Rimini.  Domenica 6 ottobre l’appuntamento è al Parco della Cava con la festa dei progetti  Ci.vi.vo. in occasione della prima domenica ecologica.

Con l’avvio del Mese delle Famiglie, il Centro per le Famiglie inaugura anche il suo nuovo blog, uno strumento in più per tutte le famiglie per conoscere da vicino le attività del Centro e per essere aggiornati su tutti gli appuntamenti. Sul blog il è presente il programma completo del Mese delle Famiglie, suddiviso nelle diverse aree d’interesse e il calendario con tutti gli eventi del giorno, le mappa dei luoghi e tutte le informazioni necessarie. Questo l’indirizzo del blog: centrofamiglie.wordpress.com. Invece per una visita alle opportunità della Riviera Romagnola ecco il link www.rivieraromagnola.net


lunedì 14 ottobre 2013

Cosa succede se si lascia in mano ad un bambino un computer? Impara!!

Cosa succede se si lascia in mano ad un bambino un computer? 
Secondo Sugata Mitra, importante professore di Educational Technology di NewCastle, i bambini imparavano a usare il computer in poco tempo e cominciavano a girare su internet, registrare musica, imparare l'inglese. Sugatra ha messo un computer a disposizione di alcuni bambini indiani che vivevano in uno slum e li ha lasciati da soli. Si è accorto che i bambini imparavano a usare il computer in poco tempo e cominciavano a girare su internet, registrare musica, imparare l'inglese. 
I bambini, per Sugata Mitra, sono sono capaci di imparare in modo diverso, aiutandosi tra loro e divertendosi, con un rapporto molto innovativo con il docente. 

Il professor Mitra è convinto che la scuola tradizionale è basata sulla funzione di produrre milioni di persone adatte a lavorare nella burocrazia. E dice che oggi questa preparazione è meno importante. La sua idea è di diffondere nel mondo dei kit per produrre pratiche educative che facciano leva sulla capacità dei bambini di imparare da soli. Casomai stimolandoli con domande interessanti da risolvere.
Mitra ha disegnato una soluzione, che chiama Sole (Self Organized Learning Environment) che sta sperimentando in alcune località dell'India e dell'Inghilterra. Ha raccolto attorno al suo progetto un certo numero di anziane signore inglesi che sono disponibili a fare le "nonne" via Skype: il loro principale compito è quello di incoraggiare i bambini al momento giusto. Gli spazi sono molto aperti in modo che il controllo sociale funzioni per incoraggiare un'attività di apprendimento e ridurre la consultazione di siti pornografici o semplicemente poco istruttivi. I docenti sono fondamentalmente chiamati a proporre domande e lasciare ai bambini di sviluppare le loro sperimentazioni, imparando tra loro: ma talvolta sono i bambini stessi a chiedere una spiegazione o un racconto e, solo a quel punto, entrano in gioco con una lezione. I risultati sono, secondo Mitra che ha documentato le sue lunghe ricerche in materia, sorprendenti. Altre scuole potranno scaricare dal web il disegno di un Sole e applicarlo nel loro contesto.
Forse Sugatra pensa troppo in grande; magari si otterrebbero risultati molto soddisfacenti anche offrendo la possibilità ai bambini di conoscere i nuovi strumenti tecnologici che ci offre il mercato.
E voi cosa ne pensate? Innovazione troppo eccessiva o giusta e appropriata? 

venerdì 11 ottobre 2013

Cioccolato Kinder e sport: cosa avranno mai in comune? Più di quanto uno si aspetta..!

L'attività sportiva, unita ad una corretta alimentazione e un sano stile di vita, è fondamentale per i ragazzi. Lo sappiamo bene e i pediatri (e adesso anche molti programmi televisivi) non fanno che ricordarlo.

Anche Kinder aiuta i ragazzi in questo senso. Come? Beh più di quanto si potrebbe pensare da un brand che realizza cioccolato, che solitamente nella testa delle persone è un cibo associato ad una alimentazione golosa e poco atletica.



Infatti, il progetto School Athletics di Kinder+Sport, in collaborazione con la Federazione Italiana di Atletica Leggera nasce con l'intento di promuovere tra i ragazzi, le famiglie e le scuole la pratica dell'Atletica Leggera.

Il programma prevede attività che coinvolgono i ragazzi delle scuole nelle iniziative di FIDAL sul territorio nazionale.


  • Giochi Sportivi Studenteschi di Corsa Campestre e su Pista. Una kermesse dello sport scolastico che vede l'Atletica Leggera grande protagonista, capace di coinvolgere nelle sue competizioni il più alto numero di studenti delle scuole secondarie di 1° e 2° gradoUna serie di manifestazioni organizzate a livello provinciale e regionale che culmina nelle due grandi Finali Nazionali.
  • Kinder+Sport Cup: è la più importante manifestazione a livello nazionale del settore giovanile e promozionale, conosciuta come Campionato Italiano Cadetti. Ogni anno più di 1000 atleti under 16 competono per consegnare la Kinder+Sport Cup alla propria regione.
  • La FIDAL propone un'attività formativa e didattica anche per i docenti delle scuole attraverso corsi di formazione ad essi dedicati, invio di materiale didattico, stage tecnico-pratici che coinvolgono gli insegnanti delle scuole nelle attività che si svolgono in occasione dei raduni nazionali dei migliori atleti FIDAL delle categorie giovanili.

Andate sulla pagina Facebook  e sul sito di Kinder+Sport per scoprire di più di questa iniziativa,  


Che dire, più cioccolato e più sport per tutti!!

mercoledì 9 ottobre 2013

L'importanza dei test Invalsi per il prof. Santu

Dopo i brillanti risultati raggiunti dai ragazzi dell'Argonne, il prof. Santu, Direttore della Primaria e Preside della Secondaria di 1° grado, ci spiega perchè questi test sono molto importanti.

"L'acronimo INVALSI sta per Istituto Nazionale per la Valutazione della scuola Italiana.
Si tratta dell'istituto che verifica, attraverso test preparati ad hoc per i vari livelli scolastici, il raggiungimento o meno degli "standard" fissati dalle Indicazioni nazionali emanate dal Ministero della pubblica istruzione(contenuti dei programmi, svolgimento e apprendimento degli stessi).

Sono importanti per tutte le scuole italiane poiché ciò che viene misurato è, in realtà, il livello della qualità dell'insegnamento e della didattica.
Le scuole FAES, non essendo scuole Statali ma Pubbliche Paritarie, sono molto attente alla somministrazione dei test perché si sentono osservate sotto una doppia lente: quella del Ministero e quella dei propri "utenti"che si aspettano una proposta didattica  più che eccellente.

Per quanto riguarda la preparazione viene effettuata solo per le terze secondarie di I grado (in vista dell'esame di Stato di fine primo ciclo), le quali si preparano ai test svolgendo quelli degli anni precedenti, messi generosamente a disposizione sul proprio sito dallo stesso INVALSI.

La finalità della preparazione è quella di aiutare gli studenti a capire la logica sulla quale generalmente sono costruiti i test che valutano non le conoscenze degli studenti, bensì le competenze.
Vero è però che i risultati ottenuti in questi anni ci hanno costantemente posizionato su una fascia medio/alta sia a livello Regionale che a livello Nazionale."

lunedì 7 ottobre 2013

A 19 anni si può anche aprire una startup e offrire ben 15 posti di lavoro: ecco la storia di Kiwi

Kiwi, un nome particolare che porta con sè una storia interessante e che di questi tempi porta una sferzata di entusiasmo! 
Kiwi è infatti una startup nata nel 2011 dall’idea del 19enne Niccolò Ferragamo e che oggi dà già lavoro a 15 persone. Tutte tra 22 e 29 anni.
«Noi abbiamo scelto come nome e simbolo della nostra app il kiwi, uccellino piccolo, un po’ goffo e schivo che passa tutta la sua vita a cercare di volare», racconta Giulia Cian Seren, che nel team si occupa del marketing. «Questa è la nostra filosofia: siamo partiti come 19enni, ma non rinunciamo a volare».
La storia di Kiwi sembra molto la storia di Facebook, però ambientata in Italia: la scuola di Sant’Anna di Pisa è la cornice entro cui nasce questo progetto; in questa scuola Niccolò studiava Economia (laureato con sei mesi di anticipo!). Nel collegio universitario della città toscana, con Niccolò abitano tre “cervelloni” dell’informatica, che scrivono i primi codici e algoritmi di Kiwi. L’idea era ben chiara nelle lore teste, mancavano solo qualche soldo nel portafoglio. 
«Nel primo giro di investimenti abbiamo raccolto 80mila euro», racconta Giulia. Grazie al passaparola tra persone ma anche grazie ai ragazzi che credono davvero in questa idea e che si rivolgono a imprenditori e professori universitari per realizzarla davvero. L’idea è semplice e convincente: far interagire persone che si trovano in uno stesso luogo (ci sono varie fasce di distanza) o partecipano allo stesso evento, grazie all’applicazione per smartphone “Kiwi Local”.
Cos'è? «Kiwi è un social proximity networking che lavora sulla geolocalizzazione. C’è sia un aspetto ludico, magari si può chiedere alla persona che è in quel momento vicina se le va di andare a prendere una birra, ma ci si possono anche scambiare informazioni importanti. Tipo: “Hai un antidolorifico?”». Con kiwi si passa dall’ambiente globale di Twitter e Facebook al mondo locale (e reale).
Come funziona? Basta scaricare l’app (gratuita) sullo smartphone. E dopo il login è possibile vedere all’istante chi, della propria “rete” è vicino ed entrare in contatto con lui o lei attraverso chat o email. Gli utenti registrati, già 10mila sparsi soprattutto nelle grandi città italiane, possono pubblicare foto e commenti, che vengono visti solo da chi fa parte della stessa rete. «È come incontrare un ex compagno di corso dell’Università durante un viaggio di lavoro che porta entrambi a Londra. O fare network con un membro della stessa associazione durante uno spettacolo a teatro. Kiwi permette di scoprire profili interessanti a due passi da noi ma che, per mancanza di informazioni o di una occasione per comunicare, non avremmo mai conosciuto».
Gli investitori iniziali erano 19, che hanno offerto piccole quote, usate per finanziare l’attività di ricerca e sviluppo e le infrastrutture. Dopo due anni, il capitale totale del team raccolto ha raggiunto quota 350mila euro. L’ultimo round di finanziamenti ha fruttato ben 200mila euro di finanziamenti.  
Il team che porta avanti la startup è composto da 15 persone, nove sviluppatori e sei amministratori. Il cosiddetto “management”, anche se loro stessi ridono all’idea di usare questa parola per autodefinirsi. «Mi viene difficile dire “il mio capo“ quando parlo di Niccolò», scherza Giulia. Hanno tra i 22 e i 29 anni (il più “vecchio” è il capo del settore tecnico). «In cinque non raggiungiamo 150 anni». 
Ma come si fanno i soldi con tutto questo? Oltre all’app, la società offre anche servizi di geolocalizzazione e software per le aziende. «Tu e i tuoi colleghi potete scrivervi e vedere se siete vicini o nella stessa città. Puoi decidere se prendere un caffè con loro o evitarli», spiega Giulia. «Kiwi rende digitali le relazioni umane». Che non significa «rendere digitale la vita o perdere l’aspetto umano a favore di quello virtuale. Al contrario, vedendo la persona vicina che ha Kiwi, si può passare dal digitale al vis-a-vis. E chiedendo informazioni alle persone vicine che non conosci, puoi anche facilitarti la giornata, magari facendoti consigliare un buon ristorante». Poi ci sono i software da vendere alle attività commerciali per vedere i messaggi che si pubblicano in quel momento in quel posto su uno schermo, ma anche la pubblicità (locale ma non solo) e le app personalizzate per associazioni o organizzazioni. «Può essere un gruppo religioso o un’associazione culturale, che in questo modo si dota di un social interno. Così viene garantita maggiore privacy rispetto a Facebook». 
La maggior parte dei componenti del team di Kiwi frequenta ancora le aule universitarie, tra master e specializzazioni. Ma alcuni di loro hanno già esperienze in altre aziende. Niccolò viene da JP Morgan, Mario (Parteli) ha lavorato per Deloitte, Andrea (Castiglione) ha creato Butlr. Mentre alcuni degli sviluppatori hanno già lavorato per Google. «Siamo andati dagli investitori portandoci dietro anche queste esperienze e queste referenze», raccontano.
Perché questa non è mica la Silicon Valley. E «in Italia difficilmente prendono sul serio un 25enne che si presenta a chiedere soldi per la sua azienda», racconta Giulia. «Noi ci siamo riusciti perché siamo convinti della nostra idea. Non lo abbiamo fatto perché ci annoiavamo, ma perché volevamo fare qualcosa di nostro. Insomma, non è vero che in Italia va tutto male. Ma è più facile fare qualcosa di tuo anziché avere lo stesso ruolo o la stessa posizione in un’azienda». Certo, «alcuni ci hanno risposto “a 22 anni cosa vuoi fare?”. Ma non voglio parlare delle cose negative! La cosa importante sono stati quelli che hanno creduto in noi, magari rivedendo loro stessi a vent’anni». 

domenica 6 ottobre 2013

Tutta la famiglia al museo: ecco una opportunità da non perdere

LOCANDINA ok

Crediamo nella famiglia, crediamo nell'educazione e spingiamo i nostri ragazzi a fare esperienze educative al di là dello stare in classe. 
Quindi non possiamo proprio non invitarvi alla Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo che si terrà in tutta Italia Domenica 13 ottobre 2013 (ideata da http://kidsarttourism.com/).
Trovate indicazioni dettagliate su FaMu (Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo). Su questo sito c’è un elenco abbastanza corposo dei musei che hanno aderito. Sono divisi per regione e poi per provincia.
C’è proprio l’imbarazzo della scelta, ma non fatevi sfuggire questa occasione!

venerdì 4 ottobre 2013

Scuole single sex o miste? Quando la risposta è pregiudiziale? Una tesi per discuterne



Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un servizio di Monica Ricci Sargentini sulle scuole unisex nel mondo che mette in luce come questa scelta sia possibile praticamente ovunque tranne che nel nostro paese dove solo le scuole Faes offrono questa possibilità.
Trovate qui l'ampia pagina on-line dedicata al tema e in coda a questa riflessione il testo dell'articolo dell'inviata.

Ringrazio di cuore il quotidiano di via Solferino e Monica Ricci Sargentini, tra l'altro per la grande cura e professionalità. Abbiamo apprezzato molto.

Vorrei personalmente riflettere sui commenti che sulla rete sono rimbalzati in vari modi.
E' lecito esprimere ogni pensiero su un argomento opinabile come questo ed è un valore rispettare le opinioni altrui, un valore che si insegna nelle scuole Faes e ci si sforza di vivere tutti in ogni occasione.
Inoltre  in nessun modo chi promuove la scuola omogenea o single sex ha la pretesa di affermare che sia la migliore soluzione o l'unica soluzione possibile, imponendo di cancellare altre opzioni.
Ciò che sostengono le organizzazioni che nel mondo propongono questa pedagogia, e sono davvero molte, o i loro sostenitori -tra i quali cito sempre Hillary Clinton- è che questo tipo di scelta educativa presenta molti vantaggi tangibili. Sicuramente ciò non intende affermare che la scelta delle scuole miste non abbia vantaggi. Nè che la scuola omogenea sia tout court la migliore scelta per tutti.

Incuriosisce come molte voci che si indignano -indignarsi? per che cosa? per chi propone un "prodotto" pedagogico diverso?- lo facciano rifacendosi a esperienze personali. Ora in Italia da circa una trentina d'anni le uniche scuole single sex sono le scuole che si rifanno ai principi proposti dall'Associazione Faes. Non consta che pedagogisti, psicoterapeuti, giornalisti, genitori, persone siano venute a vedere le scuole e a capirne dinamiche e risultati.
Appare difficile dunque comprendere come si possa affermare che la scuola single sex favorisca la violenza del maschio e il vittimismo femminile basandosi su ricordi di 30 anni fa e senza aver intervistato, studiato, analizzato anche un solo ex alunno o ex alunna delle scuole Faes in Italia.
Analizzare la situazione di oggi, un mondo molto aperto, con l'ottica e i risultati di per lo meno 30 anni fa è come valutare la comunicazione facendo riferimento al telex. Pensare che sia la scuola l'ambito in cui oggi femmine e maschi socializzano vuol dire o non capire in che mondo si vive o volere strumentalmente manipolare la realtà.
Ricordo che molti degli studenti Faes hanno conquistato posizioni di rilievo nel mondo professionale e sicuramente tutti un grande equilibrio nella vita personale e sociale.
Nel mondo poi sono stati studenti di questa tipologia di scuole donne quali Condoleeza Rice, Marissa Mayer e Selena Gomez, non esattamente modelli di donne affette da vittimismo.

E' lecito avere un parere dissenziente, ci mancherebbe altro: credo che sia intellettualmente più onesto però farselo dopo aver studiato, analizzato, osservato, visto, tratto conclusioni.

Le scuole Faes sono da sempre aperte a tutti per permettere a tutti di vedere, capire, farsi una idea con serenità e sincerità. L'accoglienza è uno dei caposaldi dell'Associazione.

Sono sicuro che farà molto piacere dare il benvenuto a chi intenda farsi una idea dal vivo per superare pregiudizi che offuscano la scientificità della valutazione.

In novembre una occasione possibile è data dagli Open Day:
sabato  9 novembre presso la scuola Faes Monforte di via Amadeo 11
sabato 16 novembre presso la scuola Faes Argonne di via Fossati-via Ponzio

Vi aspettiamo. Venite a vedere di persona!

Grazie

Ecco l'articolo apparso sul CorSera di ieri e presente nel sito del Corriere al seguente link 
http://www.corriere.it/13_ottobre_02/scuole-separate-dibattito-aperto-9f48ad00-2b6e-11e3-93f8-300eb3d838ac.shtml


Inizio ottobre in Gran Bretagna. Per le strade di Londra gli studenti in divisa entrano in classe: i maschi da una parte, le femmine dall’altra. Ma quella che agli occhi di un italiano può sembrare una scena d’altri tempi, nel Regno Unito è la normalità. Nella classifica britannica dei migliori istituti secondari privati quelli omogenei, dove gli studenti sono separati per sesso, rappresentano 21 delle prime 25 scuole, 16 femminili, 5 maschili. Anche nelle pubbliche 15 dei primi 25 istituti sono monogenere, 9 femminili e 6 maschili; un risultato eccellente, soprattutto se si pensa che sono soltanto il 2% del sistema statale.
Lo stesso accade negli Stati Uniti, dove la scelta di dividere i sessi è una realtà consolidata, anche se minoritaria, dall’800 quando furono fondate le sette sorelle, università undergraduate da contrapporre a quelle dell’Ivy League, allora appannaggio solo dei maschi. E ancora oggi molte donne leader hanno studiato in un college femminile e ne sponsorizzano la scelta, a cominciare da Hillary Clinton e Nancy Pelosi. In America, poi, l’educazione separata ha ripreso piede anche nelle scuole di primo e secondo grado a partire dal 2006, quando il Ministero dell’Educazione ha modificato l’applicazione del “Title IX”, la norma, varata nel 1972, che proibiva la discriminazione sessuale nei programmi scolastici finanziati con denaro federale.
Nel mondo le scuole monogenere, sia statali che non statali, sono più di 210.000 con oltre 40 milioni di alunni. Una tendenza che prende piede anche nella vecchia Europa dalla Germania, dove le scuole single sex sono circa 200, alla Francia dove arrivano quasi a 250. L’Australia, invece, ne conta ben 1479 con risultati nell’apprendimento tra il 15 e il 22% migliore di quelle miste; in Giappone, poi, ci sono più di 400 istituti omogenei. I fautori dell’educazione separata sostengono che ragazzi e ragazze hanno stili e i ritmi di apprendimento molto distanti tra loro. Di conseguenza, un insegnamento che li tratti come se fossero identici, utilizzando la stessa strategia didattica e pretendendo lo stesso tipo di rendimento, va a svantaggio di entrambi. L’idea non è quella di impartire un’ educazione diversa nei contenuti, anzi l’ obiettivo è di potenziare al massimo le capacità individuali in ogni campo, riducendo così gli stereotipi di genere, quelli che, per esempio, vogliono i maschi bravi nelle materie scientifiche e le femmine in quelle umanistiche.
L’argomento è controverso e suscita anche forti reazioni, soprattutto negli Stati Uniti dove l’educazione omogenea ha avuto una sorta di boom negli ultimi anni. Nel 2011 alcuni ricercatori del Consiglio Americano per la scuola mista hanno pubblicato su Science uno studio dal titolo eloquente: “La pseudoscienza della scuole single sex”, nel quale si sostiene che non c’è alcun vero dato scientifico a sostegno di queste tesi e che il successo delle scuole monogenere è dovuto semplicemente al fatto che sono molto selettive. Ma, nel 2012, uno studio dell’Università della Pennsylvania, arriva alla conclusione opposta: “Frequentare una scuola single sex porta al raggiungimento di risultati significativamente migliori”. Carlo Finulli insegna dal 1984 in una scuola elementare maschile di Milano gestita dal Faes, un’associazione di genitori e insegnanti che si rifà ai principi educativi del fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá.
Le bambine sin da piccole sono più ordinate e possono seguire lezioni più lunghe – spiega al Corriere -. I maschi hanno bisogno di più pause e di molta competitività. I dati dimostrano che nelle classi miste le femmine non danno il massimo perché si adeguano al ritmo dei maschi”. E’ importante che anche gli insegnanti siano omogenei: “In questi anni ho constatato che per i ragazzi avere un maestro dello stesso sesso aiuta a stabilire la relazione con l’autorità. Si cresce con i modelli” dice Finulli. A Milano il 16 settembre il Faes ha inaugurato due nuove sedi in Città Studi. L’arredamento, ipermoderno, è stato scelto consultando anche gli alunni. Alla Monforte, femminile, ogni corridoio ha un colore diverso e gli spazi per le consultazioni con i tutor (gli insegnanti che seguono gli alunni passo passo nel loro sviluppo) sono aperti, un tavolino e due sedie. All’Argonne, invece, prevale di più il bianco e il grigio. I ragazzi hanno voluto abbellire le pareti con i codici di programmazione informatica che percorrono i corridoi a mo’ di grechetta. E per gli incontri ci sono dei gabbiotti trasparenti, più privati. Nel mondo il dibattito è in corso ma in Italia le uniche scuole ad essere omogenee sono quelle del Faes.
Quattordici istituti in sette città, da Milano a Palermo, con circa 3 mila alunni. I programmi sono uguali, maschi e femmine seguono le medesime attività. Si gioca a scacchi, si fa teatro e non ci sono i bidelli. A turno ogni giorno sono gli allievi ad occuparsi della scuola svolgendo compiti di segreteria che li responsabilizzano. Un metodo che sembra essere vincente. Secondo uno studio, condotto dalla Fondazione Agnelli nel 2012, sui risultati ottenuti dai diplomati nel primo anno di università, il liceo Classico Monforte è risultato il primo a Milano e il 19simo nella classifica generale della Lombardia. Seguito a ruota dal più famoso e statale Giovanni Berchet nato nel 1912 come quarto liceo ginnasio del capoluogo lombardo e da sempre considerato un suo fiore all’occhiello. Non negano le differenze tra i due sessi ma restano convinti della scelta, fatta nel 1985, di passare alla classi miste al Collegio San Carlo, l’istituto che ha appena ottenuto, per il quarto anno consecutivo, l’alfierato del lavoro con una delle 25 maturità più brillanti d’Italia: “Sappiamo che le diversità possono creare qualche problema ma alla fine maschi e femmine si aiutano tra di loro — spiega al Corriere il rettore Don Aldo Geranzani —. Tutto dipende dalle capacità del docente di fare una didattica il più possibile personalizzata tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. Per far questo, però, è necessario che le classi siano piccole”.
Nel nostro Paese la divisione in classi maschili e femminili nelle scuole statali è stata abbandonata negli anni ’60 in nome delle pari opportunità e per aumentare l’interazione tra i due sessi. Una scelta che allora aveva un perché ma quarantacinque anni dopo è ancora così? Oggi in America la separazione a scuola è benedetta da femministe come la ricercatrice Carol Gilligan, che la giudica “lo strumento migliore per crescere ragazze creative e capaci di assumersi rischi”. Eppure da noi l’idea viene ancora bollata come retrograda. Perché? “Effettivamente in Italia – dice Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile - la scuola omogenea viene considerata un tabù al punto che le famiglie non conoscono questa possibilità, da un lato perché sono poche le scuole omogenee, dall’altro perché c’è un forte pregiudizio contro questo tipo di scelta, e a mio parere il pregiudizio nasce prevalentemente dal fatto che trovandoci in un Paese di cultura cattolica immediatamente la divisione fra sessi fa pensare che ci sia in chi fa questa scelta una sorta di paura a far condividere lo spazio e il tempo tra i maschi e le femmine”.
Di questa idea è la psichiatra Federica Mormando: “Dividendo non si fa che aumentare l’incisività di vecchi stereotipi – spiega -, non si fa che autorizzare la maggior violenza dei maschi e educare le bambine ad essere vittime”. Dal punto di vista strettamente scolastico i più danneggiati dall’ educazione mista appaiono i maschi perché sviluppano più tardi e più lentamente in settori come le abilità linguistiche, che invece sono privilegiate dalla scuola, apprendono più facilmente se lo stile di insegnamento è dinamico anziché libresco, e risentono dell’ onnipresenza femminile nel corpo insegnante, che nega loro modelli dello stesso sesso con cui identificarsi. Non è un caso, dicono gli esperti, se nelle scuole superiori gran parte della dispersione scolastica riguarda i ragazzi.
In America sono sempre più i maschi che lasciano la scuola prima di prendere diploma mentre le università assistono impotenti alla femminilizzazione dei campus. In un articolo, uscito il 16 settembre sul mensile The Atlantic, ci si chiede “che cosa possiamo fare per migliorare le prospettive dei bambini?”. “In primo luogo riconoscere che maschi e femmine sono diversi – è la risposta -. In molti settori dell’educazione e del governo parlare della differenza tra i sessi rimane un tabù”. Per concludere le scuole omogenee possono essere una scelta da considerare sia per ragazzi che per le ragazze. Perché? Ce lo racconta Amy Ellis Nut, una giornalista del quotidiano americano The Star Ledger che nel 2011 ha vinto il premio Pulitzer per un suo reportage su una nave che affonda: “Un college femminile ti garantisce di fare quello che vuoi, di essere quello che vuoi. Io mi sono laureata nel 1977 a Smith College in inglese e filosofia. E ho fatto il post laurea al Massachussetts Institute of Tecnology (Mit), a quel tempo le donne non si iscrivevano a filosofia o a logica e certamente non andavano all’Mit. Io ero l’unica donna nella mia classe ma non mi sono sentita mai a disagio. A Smith eri circondato da ragazze che avevano fame di sapere e non c’era nessuno che pensasse che siccome eri una donna non potevi farcela. E’ una cosa che si instilla dentro, che è nell’aria, che respiri”.