mercoledì 27 febbraio 2013

E tu? Sai ancora giocare alla vita?



D'Avenia ci stuzzica, cerca di farci riflettere sulla vita dando una sferzata di criticità alla realtà che stiamo vivendo oggi. Una denuncia alla vita che mette al primo posto Facebook invece che l'amore reale, alla realtà che sta riscrivendo il passato. 

Cose ne pensiamo noi che viviamo questa epoca? Cosa pensa di questo cambiamento chi ha vissuto il passato che sta mano a mano venendo sostituito? E i ragazzi che sono il futuro come vedono questa realtà?

Da Facebook all’amore: così bariamo
ALESSANDRO D’AVENIA
Gli uomini non corteggiano più le donne. Diventiamo cinici: non ne vale la pena, tanto poi finisce. Eppure non c’è gioco più bello dell’amore. Non comincia tutto con un gioco di sguardi per diventare poi un gioco di anime? Però non ci riesce più di stare al gioco.  

Il gioco è una delle finestre aperte per scandagliare il guazzabuglio sociale del cuore umano. Il gioco è un’isola perfetta, un territorio circoscritto da regole precise in cui il rischio - a differenza della realtà - è controllato e non può farci troppo male. Sono proprio le regole e la fiducia negli altri che rendono appassionante e libero il gioco, che finisce infatti quando uno bara o dice “non gioco più”. Così è per ogni gioco: soprattutto quello dell’amore. Ma andiamo con calma. Oggi ci sono altri giochi che ci rivelano la fatica che facciamo a giocare la vita “sul serio”.  

Prima c’è il grande gioco di ruolo globale: Facebook. Un gioco in cui uno fa la parte di se stesso, indossa la maschera di sé, grazie a foto in cui è più bello di come appare nella realtà e scrive frasi più intelligenti di quelle che pronuncia nella realtà. Appartiene alla categoria di giochi in cui impersoniamo qualcun altro. Da bambini diventavamo il dottore, la maestra, la mamma, il pompiere. Oggi diventiamo il profilo di Facebook. Il bambino che fa il pompiere non vuole fare il pompiere, ma vuole fare l’adulto, imita le cose che fanno i “grandi”. I nostri profili di Fb imitano chi noi vorremmo essere da “grandi” (non adulti, “grandi”, “magni” come Alessandro e Carlo). È un gioco antico: oscillare tra reale e ideale, tradendo spesso il primo a favore del secondo, con tutti i rischi di don Chisciotte e Madame Bovary. Certo lo facciamo per farci amare, farci amare un po’ di più: infatti essere un po’ più amabili ci fa credere di essere un po’ più amati. Le bacheche di Fb sono facciate immacolate, ma il ritratto, come Dorian Gray, è nella soffitta della nostra anima. E un giorno per farci amare davvero dovremo mostrare anche quello, con le sue brutture, a nostro rischio e pericolo.  

Poi c’è Ruzzle. Abbiamo le parole e le parole dimorano, crescono e maturano nelle poesie e nelle pagine di prosa. Quando le troviamo brillano come pepite in una miniera. Le riconosciamo come un gioiello smarrito nell’angolo di un cassetto. Oggi leggiamo un po’ meno, anzi oggi leggiamo meno poesie e meno pagine di prosa di quelle che salvano le parole. Certo, ci informiamo moltissimo, ma finiamo con l’usare sempre le stesse parole e magari lasciamo entrare nella nostra anima mostri come endorsement (che poi “appoggio” non suona tanto male). Ruzzle segnala sulla carta geografica dell’anima la nostra nostalgia per le parole: ci mancate, parole. Tornate, parole, per favore, a dirci chi siamo e come siamo. Ruzzle non è altro che il vecchio Cose Nomi Città. Giochi antichi, nomi (affari) nuovi. 

E poi c’è il gioco del calcio: l’agon, la battaglia. La vita è lotta e il calcio oggi ne è la sublimazione più comoda e spettacolare. Dal divano di casa si lotta bene. Un agone senza agonia, a tutte le ore del giorno. Che cosa c’è di meglio di lottare senza sudare ma provando le stesse emozioni? 

Certo c’è anche l’azzardo: il gratta-e-vinci, il bingo, le slot-machine e tutto quella categoria di giochi che ci ricorda che la vita è una lotta contro il destino. Non c’è merito che conti, ma puro caso a cui abbandonarsi finanche a naufragare, come purtroppo succede ai ludopatici, vittime del destino che hanno sfidato. 

Da ultimo ci sono i giochi della vertigine: quelli che piacciono ai giovani, quelli che portano a perdersi per ricordarsi che nella vita non vorremmo avere regole, infrangendo persino quelle assolute. Ogni sballo che sfida la ragione e l’istinto di conservazione: dal bungee jumping a chi beve più birre. Giochi che possono portare a giocare la vita, fino a perderla. 

I giochi del nostro tempo ci dicono chiaro che noi vogliamo “giocarci la vita” e vogliamo che gli altri “giochino sul serio”, ma allo stesso tempo ci rivelano che spesso ci accontentiamo di prenderci gioco della vita: insomma bariamo. E invece avremmo bisogno di essere veri giocatori e non bari della vita: giocare un po’ di più nel quotidiano e con le persone che abbiamo accanto. Fare un amore più vero, tornare a corteggiare senza sfumature di grigio, leggere una bella poesia e magari impararla a memoria, essere persone amate e non solo amabili profili, accettare l’agone senza il divano, lavorare in modo più giocoso e azzardare qualche scelta invece di lamentarci sempre della sfortuna.  

Non ho dimenticato l’amore, il gioco dei giochi. Il gioiello più fragile e prezioso della vita, che per indossarlo infatti incastoniamo giorno per giorno nell’oro dei riti. Eppure sembra che il galateo dei sentimenti stia sparendo. Non sappiamo più giocare come si deve. Non sappiamo più arrossire, corteggiare, sfiorare, cercare parole, ricordare un anniversario e fare una sorpresa. Compriamo subito, afferriamo subito, dimentichiamo subito. Ci prendiamo gioco dell’amore, bariamo, per poi scoprire che ci siamo giocati la felicità. E finiamo col nasconderci dietro un cinico e dolorante: non gioco più. 

martedì 26 febbraio 2013

Il profumo dei limoni o quello dell'iPad?


la prossima serata proposta da Associazione Faes:
4 marzo 2013
Caravaggio: l'urlo e la luce 
presso il teatro IMI via Visconti d'Aragona Milano 



Il profumo dei limoni 
Jonah Lynch e la tecnologia




Il profumo dei limoni come antidoto all’abuso di tecnologia. Così si può riassumere il messaggio proposto da Padre Jonah Lynch, fisico e vicerettore del seminario della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo e autore di un interessante e affascinante saggio sulla tecnologia e i rapporti umani nell’era di Facebook edito da Lindua e che porta proprio questo titolo il profumo dei limoni.
Nell’incontro organizzato dall’associazione Faes lo scorso giovedì 21 febbraio presso il teatro dell’Istituto Maria Immacolata (a questo link si trova l'audio della serata), 
Lynch affiancato dal giornalista Giuseppe Romano, che lo ha intervistato a beneficio di tutti i presenti, ha analizzato l’impatto che la tecnologia ha sulla nostra vita e come possiamo gestirla al meglio. Perché, ha spiegato l’autore, la tecnologia non è neutra. Se non possiamo certo affermare che non sia cattiva in sé, è anche vero che non si può ignorare che influenzi, e pesantemente, la nostra vita. Anche la nostra fisiologia. Che effetto ha sul nostro cervello essere sempre connessi? Leggere non più sequenzialmente, come un testo scritto, ma a F come si fa con i siti web? Che impatto ha vivere contemporaneamente in rete e nel mondo? La tecnologia è pervasiva: che influenza ha tutto questo sulle relazioni, sull’educazione, sull’istruzione?
Lynch ha sottolineato come il tempo che stiamo vivendo, caratterizzato da un velocissimo passaggio da un mondo tradizionale ad uno basato sulla multidimensionalità imposta dalla tecnologia e potremmo perdere, in questa epoca breve, l’occasione di trasmettere la cultura. Infatti la generazione dei padri, che ha memoria del mondo precedente all’avvento della rete e che conserva il ricordo delle epoche anteriori narrato dai nonni, può non riuscire a condividere questa cultura con i figli lanciati verso un mondo nuovo e ancora oscuro.
Lynch ovviamente non demonizza la tecnologia né predica un abbandono dei mezzi che abbiamo a disposizione per gestire la velocità di connessione, caldeggia solamente una accorta gestione di questi strumenti che possono sì aiutarci, ma anche permetterci di provare sentimenti a comando in una sorta di delirio di onnipotenza, di profumo nietschiano di volontà di potenza.

Come resistere a questa tentazione, come difendersi da questa deriva? Con la riscoperta e la riconquista del locale, del piccolo spazio intorno al cuore: il profumo dei limoni appunto, che rappresentano quella solarità improvvisa che ci ricorda l’importanza dell’esperienza reale. Dobbiamo trovare la forza di spegnere il mondo per dedicarci, cuore e anima, al nostro intorno, alla relazione con i famigliari (in quante famiglie si tengono accessi i cellulari personali anche durante le cene insieme con interruzioni di quel clima di casa che marca il senso dell’intimità famigliare?) all’amore per il creato che abbiamo intorno. Questo il suggerimento di Lynch: amare ciò che abbiamo in torno per ciò che è, come ci è stato dato, che si tratti del panorama, del coniuge, del figlio, del fratello. Questo è ciò che ha fatto le cose grandi e belle nella storia dell’uomo: appiattire e semplificare tutto, rendere tutto uguale e globale mortifica l’umanità. La relazione è il centro della vita, una relazione personale e fisica: Cristo ha scelto questa strada, quel del cuore a cuore, per andare incontro all’uomo. Non può essere sostituito da un Tweet.
L’autore ci invita a riflettere anche sul valore del silenzio e dell’attesa. Parlando dell’amore ci ricorda il valore di quel tempo che andava dalla spedizione di una lettera all’arrivo della risposta: un tempo di silenzio e sogni, di slanci moltiplicati dalla non consapevolezza di cosa stesse accadendo. Un tempo per tenere vivo il pensiero e acceso. Molto più inteso della frazione di secondo tra un SMS e una email.


la prossima serata proposta da Associazione Faes:
4 marzo 2013
Caravaggio: l'urlo e la luce 
presso il teatro IMI via Visconti d'Aragona Milano 



venerdì 22 febbraio 2013

Milanesi e italiani, salviamo il Duomo! Adottiamo una guglia!



Il Duomo di Milano. Monumento simbolo del capoluogo lombardo, dedicato a Santa Maria Nascente e situato nell'omonima piazza nel centro della città. Per superficie, è la quarta chiesa d'Europa, dopo San Pietro in VaticanoSaint Paul's a Londra e la cattedrale di Siviglia. È la chiesa più importante dell'arcidiocesi di Milano ed è sede della parrocchia di Santa Tecla nel Duomo di Milano. Così ci informa Wikipedia. Tutte informazioni che i veri milanesi, e quelli di adozione, conoscono bene. Ma forse, e purtroppo, non in tanti conoscono l'iniziativa che è in corso da Ottobre, promossa dalla Veneranda Fabbrica del Duomo. 
La Veneranda Fabbrica infatti vuole coinvolgere i milanesi e i cittadini di tutto il mondo nella restaurazione del monumento più importante di Milano, rendendo così tutti noi protagonisti della storia del Duomo, così come lo sono stati gli uomini che hanno lavorato anni alla sua costruzione, durante la sua origine. Il Duomo senza i milanesi non potrebbe esistere, così come Milano senza il suo Duomo. Il Duomo costituisce l’identità della città, e proprio per questo i cittadini sono chiamati a un atto di responsabilità popolare, insieme ai visitatori ed estimatori di tutto il mondo che vogliono partecipare alla sua continua creazione.
La Fabbrica ha scelto di celebrare i suoi 625 anni con il lancio di una grande iniziativa: Adotta una guglia, una campagna di raccolta fondi per la salvaguardia degli elementi architettonici più fragili del Duomo. Un’iniziativa volta a finanziare i complessi interventi che ammontano a circa 25 milioni di euro e che consentono alle guglie di essere messe in sicurezza e svettare, come hanno fatto da molti secoli, nel cielo di Milano.
Purtroppo, dicevo qualche riga fa, perché purtroppo mi potreste dire? Una campagna così bella? Si, ma se andiamo a guardare bene i numeri che questa campagna ci presenta si può essere solo depressi: 302 è il numero di italiani che hanno "adottato" una guglia donando qualche euro, e vi assicuro che non è un dato in salita costante. Ridicolo se paragonato ai 23 francesi e ai 2 argentini che hanno sostenuto questa campagna. Annoverati tra i "Grandi Donatori" figura una sola azienda, presumibilmente la azienda che sta seguendo le RP della campagna. 
Una campagna davvero bella sulla carta, ma poi? Cosa succede nella realtà? Perchè nessuno la conosce? Parlando da studentessa di Psicologia del Marketing posso ipotizzare che la strategia di comunicazione utilizzata non è forse stata la più adeguata, non sono stati sfruttati i vantaggi offerti dalle caratteristiche dei media utilizzati. 
Che dire, siamo davvero irrecuperabili? Beh intanto io mi sono presa a cuore questa "adozione monumentale" e ve ne parlo qui, su questo blog; ne parlerò su altri blog, spargerò la voce perché penso che sia davvero una questione importante per noi milanesi, per gli italiani. Cosa ci sta chiedendo la nostra città in fin dei conti? Una mano per essere sempre più bella, un aiuto per mettere a nuovo un elemento simbolo della nostra Milano, a cui noi tutti siamo affezionati: chi passando per piazza del Duomo non sente una tranquillità, una dolce sensazione di essere a casa? 

Cosa aspettate Milanesi? Adottate una guglia anche voi!!
P.S. Se volete spargere la voce anche voi e far alzare i numeri che rappresentano questa campagna trovate la Pagina Facebook, il sito, e un video per lo più sconosciuto su you tube.
Chiara Pugni

mercoledì 20 febbraio 2013

La crisi dell'università

Drastico calo delle immatricolazioni nelle università italiane, al punto che in un decennio è come se fosse scomparso un ateneo grande quanto la Statale di Milano: gli iscritti sono diminuiti del 17%, passando da 338mila a 280mila. Una crisi, quella del mondo accademico, che riflette perfettamente il momento che stanno vivendo i giovani italiani in questo momento storico.
Quali sono le ragioni di questa perdita? Basta il calo della natalità a spiegare la flessione? Oppure c'è di mezzo la crisi della famiglia? O quella del lavoro? Possiamo arrivare ad ipotizzare che sia un fenomeno di bamboccionismo o questa è una illazione priva di fondamento? In che modo il liceo aiuta a scegliere un percorso universitario: è una fonte di ispirazione o fa perdere la voglia di impegnarsi?
Tutte le scuole offrono medesime possibilità a tutti i loro alunni? In questo studio pubblicato da La Stampa e ripreso dal Politecnico di Torino si traccia una relazione tra scola superiore (omogenea) e iscrizioni all'Università: ci sarà una relazione anche in questo caso?

Su questa violenta emorragia conviene riflettere magari anche solo per convenire che, vista la situazione odierna, l'Università offre meno opportunità di una scuola tecnica per affrontare il mondo del lavoro.  A tal proposito, per indurre a ragionare e fornire qualche elemento interessante, ripubblichiamo un articolo tratto dal sito del Corriere della Sera del 31 gennaio 2013. 


Iscritti, laureati, dottorati, docenti, fondi, tutte «voci» con il segno meno: l'università italiana è in grande affanno. Lo denuncia il Cun (Consiglio universitario nazionale) in un documento rivolto all'attuale Governo e Parlamento, alle forze politiche impegnate nella competizione elettorale, «ma soprattutto a tutto il Paese». Il documento (Dichiarazione per l'università e la ricerca, le emergenze del sistema) sottolinea che dal 2009 il Fondo difinanziamento ordinario (Ffo) è sceso del 5% ogni anno. 

In dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%).  Il calo delle immatricolazioni riguarda tutto il territorio e la gran parte degli atenei. Ai 19enni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi 5 anni, la laurea interessa sempre meno: le iscrizioni sono calate del 4% in tre anni: dal 51% nel 2007-2008 al 47% nel 2010-2011.

Il calo però non è ovunque uguale: «L'Italia è spaccata», dice il ministro dell'Università, Francesco Profumo, in un'intervista a Radio 24. «In due regioni - ha spiegato - Piemonte e Trentino, aumentano le immatricolazioni. Poi ci sono regioni come Liguria, Veneto, Valle d'Aosta, Friuli, Marche e Toscana che hanno ridotto le immatricolazioni ma meno della media nazionale. In altre arriviamo fino al 36% in meno. Il Paese è spaccato». «Le università - ha poi ricordato il ministro - dal 1989 sono istituzioni autonome e responsabili, il ministero è un regista, ma la parte di attuazione avviene attraverso le autonomie dell'università».
L'ufficio studi di Almalaurea accende i riflettori su un fenomeno, quello degli abbandoni scolastici, che potrebbe in parte spiegare i nuovi dati: «La selezione pre-università è talmente forte che oggi si iscrivono a una facoltà 29 diciannovenni su cento. Se consideriamo la popolazione che termina le scuole superiori, il calo è stato del 10%: dal 74% dei primi anni del 2000 si è passati al 64%.
Quanto a laureati, l'Italia è largamente al di sotto della media Ocse: 34esimo posto su 36 Paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, contro una media europea del 30%. Il 33,6% degli iscritti, infine, è fuori corso mentre il 17,3% non fa esami.
Il numero dei laureati nel nostro Paese è destinato a calare ancora anche perchè, negli ultimi 3 anni, il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l'84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest'anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. Se questa riduzione è stata inizialmente dovuta ad azioni di razionalizzazione, ora dipende invece in larghissima misura - si fa notare - alla pesante riduzione del personale docente.
Rispetto alla media Ue, in Italia abbiamo 6.000 dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi di dottorato. L'attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla riforma Gelmini è ancora al palo e il 50% dei laureati segue i corsi di dottorato senza borsa di studio.

In soli sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22%. Nei prossimi 3 anni si prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Pur considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto docenti/studenti è destinato a divaricarsi ancora per una continua emorragia di professori che non vengono più assunti. Il calo è anche dovuto alla forte limitazione imposta ai contratti di insegnamento che ciascun ateneo può stipulare.
Dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull'inflazione, è rimasto quasi stabile, per poi scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%. Su queste basi e in assenza di un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime università, a rischio di dissesto - osserva il Cun- non possono programmare nè didattica nè ricerca.
A forte rischio obsolescenza poi le attrezzature dei laboratori per la decurtazione dei fondi: anche i finanziamenti Prin, cioè i fondi destinati alla ricerca libera di base per le università e il Cnr, subiscono tagli costanti: si è passati da una media di 50 milioni all'anno ai 13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel 2008-2009 a progetti biennali si è passati a 170 milioni per il biennio 2010-2011 ma per progetti triennali, per giungere a meno di 40 milioni nel 2012, sempre per progetti triennali.



lunedì 18 febbraio 2013

La guerra tra scuola e famiglia (parte terza di tre)







III Ma che cosa è l’educazione?
Che cosa vuol dire educare oggi, in Italia?
C.S.Lewis ci spiega anche nel medesimo saggio che cosa sia l’educazione e il suo scopo. O per lo meno che cosa sia stato fino a pochi anni fa: “Aristotle says that the aim of education is to make the pupil like and dislike what he ought. When the age for reflective thought comes, the pupil who has been thus trained in 'ordinate affections' or 'just sentiments' will easily find the first principles in Ethics; but to the corrupt man they will never be visible at all and he can make no progress in that science” (Aristotele dice che lo scopo dell’educazione è far comprendere al fanciullo ciò che deve apprezzare e cosa rifiutare. Quanto arriverà l’età della ragione il ragazzo che è stato educato secondo una ordinata comprensione delle cose secondo "un sentimento ordinato" facilmente scoprirà i primi principi dell'etica, ma per l'uomo corrotto questi non saranno mai visibili e non riuscirà mai a progredire in questa scienza)
Educare non è dunque dare sempre ragione, coccolare fino a imbambagire, bomboccionare instupidendo i figli, facendo credere loro che il mondo non solo è sempre bello, ma ruota ogni singolo istante attorno a loro. Che tutto è fatto per essere colto, senza sforzo, senza fatica, senza spine. Del resto l’esatta conseguenza di una cultura –sì, insegnamento degli intellettuali- che ha prodotto slogan di grido come “io esiste” “l’uomo che non deve chiedere mai” “il lusso è tuo diritto” o profumi come “arrogance” ed “egoiste”.
Una educazione che non ha nemmeno il diritto di chiamarsi con questo nome.
Se dunque mettiamo insieme le due cose ci rendiamo conto di quale sia il vero problema del conflitto in atto tra genitori e professori e ne scorgiamo anche la vera radice. Vale a dire l’esaltazione dell’io, anzi dell’ego. Da un lato il genitori che si arroga di sapere, solo lui, il meglio per i propri figli che non devono essere turbati: gli chiedi di spegnere il cellulare e ascoltarti mentre parli? Sei un dittatore!



Dall’altro quello dell’insegnante che ha studiato per raccontare la sua favoletta sempre allo stesso modo (un problema ricorrente: ricordate la canzone di Venditti?) che vede prevaricato dall’adolescente, o addirittura dal bambino, il proprio ruolo e ha sempre più paura di esercitare una autorità che nessuno sembra più riconoscergli.E quindi sclera.
Tragica l’epoca in cui, con la pretesa di avere distrutto la gabbia delle leggi della morale, vede sempre più spesso la necessità di risolvere i conflitti non con il buon senso, ma con il codice civile quando non addirittura penale!
Ma torniamo al punto: per riscoprire non dico la sintonia, ma addirittura la sinergia, famiglia e scuola devono accordarsi sul senso dell’educazione e sui ruoli che tocca ad ognuno di loro, per raggiungere il medesimo scopo. Capire che insieme possono fare il bene del figlio. Spostare l’attenzione dal loro interesse a quello del ragazzo.  
E devono ricordarsi, soprattutto i genitori, che educare non significa dire sempre di sì e spianare tutte le strade. Semmai esattamente il contrario: preparare i figli per il cammino. Il che comporta rimproverare, pretendere, castigare. E se a farlo sono i professori ben venga il loro prezioso aiuto.
Ecco perché ci sono le scuole Faes.

venerdì 15 febbraio 2013

Giovani "choosy": di chi è la colpa?

Rimaniamo in tema con l'argomento che abbiamo trattato negli ultimi post: rapporto esistente tra scuola, lavoro, famiglia.

Vi proponiamo oggi un'articolo di Giordano Bruno Guerri dal titolo accattivante e sicuramente usato apposta per richiamare l'attenzione, datato 13 Gennaio 2013, in cui l'autore cerca di difendere la scuola dall'accusa di non essere in grado di dare ai ragazzi una base di sapere e di tempra per affrontare le esigenze che il lavoro richiede, in termini di conoscenze ma anche di sforzi e fatica.
Guerri discolpa la scuola additando la società in cui viviamo come causa principale del fattore "choosy" giovanile,
Vi lasciamo alle sue parole che senza dubbio sono più indicate per spiegare il suo pensiero, a voi riflessioni che seguiranno e sono ben accette le vostre critiche, i vostri dubbi e le vostre riflessioni, che servono per cercare insieme di capire che cosa sta succedendo ai giovani d'oggi, e alla società.



Se la famiglia insegna ai giovani a non lavorare


Dappertutto - all'università, per strada, sul web - sento giovani che pensano di lasciare l'Italia, che considerano il trasferimento all'estero non come un ripiego, ma come un'ottima soluzione per la vita. Per lo più non sono né disoccupati cronici né cervelli in fuga. Sono ragazzi e ragazze normali, forse soltanto più intraprendenti della media, che giudicano l'Italia un Paese inadeguato alle loro aspettative. E le aspettative non riguardano semplicemente il lavoro, il guadagno, ma anche se non soprattutto lo stile di vita, le prospettive per il futuro.
Sono «choosy», come dichiarò il ministro Fornero attirandosi critiche a non finire? Un politico dovrebbe essere più astuto, di certo più prudente, ma ora il giudizio di Fornero parrebbe confermato da una ricerca del Censis: le imprese artigiane preferiscono assumere ultratrentenni perché i più giovani avrebbero scarsa preparazione tecnica (secondo il 39,5 per cento degli intervistati), aspettative economiche troppo alte (28 per cento), difficoltà a sopportare la fatica (25,1 per cento). Oltre un'impresa su due riconosce ai lavoratori stranieri la disponibilità a svolgere mansioni di cui gli italiani non vogliono sentire parlare.
Giovani troppo schizzinosi, dunque? No, è colpa della scuola, risponde il 76,6 per cento delle piccole e medie imprese, che non sa preparare i ragazzi ai bisogni delle aziende. In effetti si ha l'impressione, suffragata dai fatti, che le scuole professionali e quelle di concetto non sappiano preparare al lavoro e ai sacrifici che il lavoro comporta, che siano più istruttive (quando lo sono) che formative del carattere, della personalità e della preparazione alla vita sociale. In compenso è netta la sensazione che proprio la scuola dia - anche a chi fa studi professionali, figurarsi agli altri - una formazione abbastanza sofisticata da illudere sull'utilizzo che se ne potrà fare nel mondo del lavoro, fomentando aspettative che non potranno venire soddisfatte. 
Tuttavia non si deve dare sempre ogni colpa alla scuola e a chi ci lavora. La scuola è un'espressione della società che la produce, e di quella società condivide i difetti e i limiti, oltre che i meriti e le qualità. La nostra società e i modelli che la rappresentano, per esempio la politica e la televisione, forniscono ai giovani una rappresentazione scintillante della vita, piena di soddisfazioni e dunque di necessità da soddisfare, di vittorie ma non delle fatiche necessarie a raggiungerle. A X Factor trionfa appunto chi ha il «fattore X», ovvero una dote naturale, non chi si prepara e sgobba di più per vincere; la politica non è tanto il campo del fare per ottenere un risultato, quanto quello dell'apparire per promettere, poi, di fare. Eccetera. Anche la scuola, infine, non è né abbastanza competitiva né abbastanza selettiva per essere anche scuola di vita.
Internet, film, viaggi e televisione danno alle nuove generazioni una conoscenza del mondo quale mai nessuna generazione prima. Molto spesso è una conoscenza virtuale, e dunque superficiale, che porterà al fallimento e alla delusione chi tenta l'avventura senza strumenti sufficienti. Tutti sanno che gli Stati Uniti, o l'Australia, permettono carriere più veloci e meno condizionate da raccomandazioni, figliolanze, furbate. Pochi però conoscono Weber, l'etica protestante e lo spirito del capitalismo, per cui in quei Paesi il principio dominante è che solo se si è bravi si viene premiati. E dunque i più vanno a sbattere tremende musate. Ma è anche vero, tanto più, che là i bravi hanno davvero maggiori probabilità di farcela: per cui, alla fine, è sensato e giusto che molti giovani vadano in cerca di mondi migliori.
Da noi, senza un lungo e faticoso lavoro generale di cambiamento dei modelli (culturali, sociali, politici) e delle strutture (culturali, sociali, politiche), non ne usciremo. E, fra quelli che resteranno, continueremo ad avere dei giovani «choosy» senza però potergliene fare una colpa.

Giordano Bruno Guerri


Link all'articolo 

mercoledì 13 febbraio 2013

La guerra tra scuola e famiglia (parte seconda di tre)



II Esiste una scuola che non educhi?
Prima di scendere nella tana del drago cerchiamo di capire che cosa si aspettano i genitori dalla scuola oggi e che ruolo la scuola si sia apparentemente ritagliata per sé.
Nel suo intervento, che ha avuto luogo durante l’Open Day delle scuole Faes di Milano in novembre, la neuropsichiatra dell’età infantile ed evolutiva Mariolina Migliarese, ha chiesto ai suoi ascoltatori se preferiscono una scuola che si limiti ad insegnare o una che anche educhi.
Domanda provocatoria da un certo punto di vista. Oggi si presume che la scuola abbia come solo compito quello di trasmettere del sapere. Il che è falso.
Anche se la scuola ha fatto di tutto per farcelo credere?
Perché? Se vogliamo essere ottimisti perché il relativismo l’ha influenza a tal punto da annebbiarle la vista. Educare significa avere un sistema di valori di riferimento e ciò sembra in contrasto con coloro che pretendono che rispetto significhi rinuncia ad ogni valore non negoziabile.
Per cui meglio pensare a trasmettere nozioni, a favorire la socializzazione che ad educare: lo chiarisce con grande lucidità Paola Mastrocola nel suo crudo e squisito saggio La scuola raccontata al mio cane.
A voler essere invece maliziosi è perché dietro questo schermo di apparente neutralità, si lavora per la manipolazione delle menti.
Infatti non è possibile trasmettere solo nozioni senza influenzare sempre gli alunni con una visione personale. Lo spiega benissimo C.S.Lewis, filosofo e scrittore autore del famoso ciclo di Narnia e membro degli Inklings, nel suo bel libro The abolition of man introvabile nella sua versione italiana (qui trovate la sua descrizione, qui qualche citazione e un qui un riassunto – nel link precedente, quello del titolo, trovate la versione integrale del pamphlet in versione pdf) dove con una serie di esempi spiega come l’educazione stia corrompendo l’uomo privandolo della sua capacità di conoscere il bene, il bello e il vero. Se si considera che il testo è del 1943 possiamo comprendere l’attualità del saggio, la medesima di quei libri che parlano della verità sull’uomo.
Ecco che cosa nota Lewis
I have hitherto been assuming that such teachers as Gaius and Titius do not fully realize what they are doing and do not intend the far-reaching consequences it will actually have. There is, of course, another possibility. What I have called (presuming on their concurrence in a certain traditional system of values) the 'trousered ape' and the 'urban blockhead' may be precisely the kind of man they really wish to produce. The differences between us may go all the way down. They may really hold that the ordinary human feelings about the past or animals or large waterfalls are contrary to reason and contemptible and ought to be eradicated.
They may be intending to make a clean sweep of traditional values and start with a new set.”

C’è dunque l’intento di manipolare le coscienze e produrre sciocchi scimmioni? Beh il dubbio viene se si riflette su come è stato trasformato e stravolto il concetto di educazione.


lunedì 11 febbraio 2013

Elena Veschi: l'azienda tutta al femminile



 Costruire il proprio successo con tenacia e sacrificio




Elena Veschi è amministratore unico di Umbraplast, nonostante da piccola sognasse di fare l’esploratrice, con esperienze di studio in Italia e all’estero, siede nel consiglio centrale di Confindustria Gruppo Giovani. La sua azienda si presenta come una azienda tutta al femminile. 

La prima domanda che le rivolgiamo riguarda proprio questa affermazione: può spiegarci in quale senso?
lI management aziendale è tutto al femminile, mentre la produzione è al contrario decisamente un mondo maschile


Che difficoltà incontra nel mondo del lavoro una "azienda donna"?
Le difficoltà sono le medesime per tutti , purtroppo in questo contesto economico è sempre più difficile fare impresa in Italia perché non è un Paese competitivo: la troppa tassazione e burocrazia hanno ucciso la voglia degli imprenditori di continuare ad investire in questo Paese. E' un lavoro tanto bello quando complesso: devi scordarti di avere del tempo libero e per una donna il sacrificio è sicuramente maggiore soprattutto se ha famiglia, devi fare molte rinunce per seguire tutto .


In quale modo favorite le opportunità delle donne in UmbraPlast?
Da noi vige la meritocrazia e non ci sono favoritismi.

Che cosa andrebbe fatto per valorizzare il mondo femminile nella società e nel lavoro?
Sicuramente avere delle strutture adeguata: mi rivolgo ad asili pubblici a prezzi accessibili e una maggiore collaborazione da parte degli uomini che molto spesso sono poco presenti.

Quali sono a suo parere le qualità specifiche della donna nel mondo del lavoro?
Premetto che non sono una femminista e sono contro le quote rosa, credo che se una persona è meritevole vada premiata altrimenti no a prescindere dal sesso.Una donna è solitamente poliedrica: quelle veramente in gamba hanno una marcia in più rispetto agli uomini e sono instancabili. Non è comunque semplice trovarne: purtroppo si fermano con il vincolo della famiglia e non emergono nel mercato ma restano in posizioni medio basse, si adagiano un po' per comodità e un po' per mancanza di ambizione.

Come è possibile sviluppare una cultura imprenditoriale nelle ragazze per stimolarle a procurarsi oltre che a cogliere le opportunità?
Ci sono molte donne imprenditrici, credo che sia un settore ben rappresentato dal gentil sesso...Le motivazioni le puoi trasmettere ma poi ci vuole una giusta dose di ambizione e sacrificio che molto spesso viene a mancare.

Quali strumenti di marketing usa Umbraplast per rimanere al vertice del mercato?
La nostra è un'azienda manufatturiera e la parte principale è data dall'innovazione sia di processo che di prodotto.

Quanto conta e come la creatività femminile in questi approcci?
Conta abbastanza ma sicuramente è una componente molto limitata rispetto a tutto il resto..


L'azienda che lei guida opera internazionalmente: qual è l'atteggiamento di altri paesi verso le donne nel mondo del lavoro?
Tranne alcuni Paesi musulmani dove è praticamente impossibile fare business con gli uomini, il resto del mondo ha una forte presenza femminile nei posti di lavoro

L'omogeneità scolastica in tutto il mondo, specie nei paesi anglosassoni, sta tornando prepotentemente alla ribalta come mezzo per favorire le donne: tra i suoi sostenitori c'è ad esempio Hillary Clinton che vede in questa forma di pedagogia uno strumento eccellente per sviluppare le specifiche qualità delle donne così da renderle capaci di avere successo nella società: che cosa ne pensa a riguardo?
Credo che la formazione scolastica sia importante ma se poi non hai ambizione, spirito di sacrificio, volontà e una preponderanza al rischio non sei idonea a fare l'imprenditore, soprattutto oggi dove tutto è sempre più complesso.

venerdì 8 febbraio 2013

La guerra tra scuola e famiglia (prima parte di tre)



I La guerra tra scuola e famiglia ha una sola vittima: lo studente
Sarà mai possibile trovare un punto d’incontro tra scuola e famiglia o le due realtà sono destinate ad una guerra sempre più aspra che culminerà con la distruzione del sistema educativo come lo conosciamo?
Può sembrare un po’ apocalittica questa affermazione ma se ci guardiamo attorno, se diamo retta alle notizie che pubblicano i giornali, forse il dubbio che si sia avviato un processo irreversibile può anche coglierci.
E’ interessante ad esempio riflettere sul tema partendo da questo articolo apparso di recente sul Corriere della Sera, l’ennesimo che contrappone genitori ad insegnanti e che ha scatenato battaglie infuocate sul web tra coloro che sostengono a spada tratta i docenti, o che prendono posizione per i genitori, senza dimenticare quelli che intervengono per dire. “da me è diverso” o anzi per meglio dire “io sono diverso” nel senso ovviamente di migliore, qualche che sia il ruolo ricoperto. Tra l’altro è interessante vedere come nessuna delle due parti abbia voglia di mettersi in gioco e per lo meno provare a rivedere se qualche errore lo ha commesso. E questo giochino accomuna tutti: di recente ho proposto un altro pezzo del medesimo blog del Corriere sullo spread tra scuola e lavoro ottenendo una levata di scudi da parte di insegnanti che aggrediscono chiunque osi mettere in discussione il fatto che loro possiedono la Verità tutta intera: per inciso, un bel modo per insegnare agli studenti quell’atteggiamento di curiosità e continuo apprendimento che nasce da quel “io so di non sapere” e che quindi si vorrebbe fondato sull’umiltà…
Non mi interessa però tanto discutere di chi abbia ragione o se ci sia qualcuno che non ce l’ha, quanto di esaminare il problema che sta alla radice di questa questione e vale a dire: che senso ha l’educazione e chi la deve orientare.
Perché questo è il punto chiave: a che cosa serve educare? Che cosa vuol dire? E che ruolo hanno famiglia e  la scuola in tutto questo?
Questa vicenda è chiave perché se oggi è saltata l’alleanza scuola-famiglia -e le aberrazioni descritte nell’articolo citato come in molti altri ne sono la diretta conseguenza- forse è perché si è perso di vista che cosa sia l’educazione e che cosa comporti.

(segue)


mercoledì 6 febbraio 2013

Scuola e lavoro, come possono collaborare?


Vogliamo oggi proporvi questo articolo, datato 24 Gennaio 2013. Molto interessante perché mette in evidenza il rapporto tra scuole e azienda, tra lo scambio che deve esserci (ma manca) tra insegnamento a scuola e competenze che le aziende richiedono. L'impressione è di trovarsi di fronte ad una situazione grave dove, data per scontata la buona fede di tutti (magari quasi tutti) gli interlocutori, sia difficile anche solo ascoltarsi. E qui forse torna in discussione il ruolo della scuola (ne parleremo di nuovo a breve) e della cultura: quest'ultima deve essere solo finalizzata al lavoro o deve gettare basi ben più ampie che spalanchino anima e mente dei discenti? Cultura è solo inglese, informatica e impresa o è anche di più?
E' malata la scuola o è malata la società che richiede a questa scuola solo tecnica e non cultura?
La scuola è davvero cristallizzata in un tempo che non esiste più o invece difende valori e tradizioni senza le quali la società crollerebbe?
Sarebbe il caso anche di capire di quali valori si parla, ma per ora più in generale la riflessione va al rapporto tra questi due mondi che oggi più che mai sembrano non solo lontani ma anche guardarsi in cagnesco e in lotta. 
Voi che ne pensate? Leggete e fateci sapere qual è la vostra opinione!

Eccola, la mia filiera di riferimento. Parte dalla scuola, confluisce molto presto nel lavoro, passa per la capacità di creare un’impresa o parteciparvi, valorizza i meriti a prescindere dal genere ma nella diversità riconosce un valore. Eppure questa è oggi nel nostro Paese una filiera profondamente malata. Le cui carenze sopportiamo quotidianamente.
È malata la scuola. Sebbene il Rapporto sulla Qualità della Scuola in Lombardia ne faccia un quadro a tinte rosa – e forse perché la mia esperienza è legata alla città in cui sono cresciuta e lavoro, Mantova – spesso nei fatti, percepisco la scuola (non tutta naturalmente) come una entità ferma, immobile e cristallizzata. Senza tempo.
Ancora in attesa della circolare che comunichi ufficialmente ai docenti e dirigenti che sono stati inventati il personal computer e la banda larga. Una scuola che non sa cosa sia l’impresa e che non trasmette ai nostri figli il valore di un mestiere, sia esso industriale o artigianale.
Una scuola con testi sorpassati che spiegano su carta cosa sia un ciclo produttivo,quando la più grande ricchezza dei nostri territori sono le piccole e medie imprese che lo studente non vedrà mai, se non quando intraprenderà la carriera lavorativa, cosa che accade sempre più in là nel tempo.
Una scuola estranea alle logiche del merito e del mercato. Quel mercato che dovrebbe tornare ad essere luogo di produzione e scambio di valore. Questa scuola non aiuta noi donne, noi imprenditrici, noi madri, noi lavoratrici. Questa scuola ci illude che siamo meritevoli in base ai canoni del livellamento delle competenze, del conformismo e dello stereotipo, dell’appiattimento verso il basso.
È una scuola nella quale noi donne ce la caviamo ed anzi superiamo i nostri colleghi maschi. Ma che ci penalizza quando ci troviamo alle prese con il primo lavoro, con la concertazione all’interno dell’azienda, quando siamo chiamate a dimostrare i nostri meriti, quando avremo una famiglia e ci sentiremo in colpa per non poter crescere i nostri figli a tempo pieno.
È malato il contesto lavorativo. Un mercato del lavoro troppo rigido che non ci agevola e non ci consente di scegliere con libertà la professione per cui siamo vocate, o di cambiare lavoro con serenità. Così come non ci agevolano la contrattualistica o leggi come la recente riforma del lavoro, che attraverso la retorica delle tutele irrigidiscono gli orari di lavoro, ci impediscono di rimanere libere professioniste (riconoscendoci l’autonomia di decidere orari e luoghi della prestazione), ci impediscono di lavorare da casa o infine di partecipare a riunioni di lavoro durante la maternità obbligatoria quand’anche lo volessimo.
È malata anche molta parte di quella impresa italiana che ha pensato troppo a lungo di poter sopravvivere senza la scienza, la conoscenza, la ricerca, l’innovazione, la cultura, lo studio, l’aggiornamento. Ha pensato che il vento favorevole della crescita economica sarebbe bastato a supplire a quel minimo di conoscenze teoriche che invece acquisivano i nostri competitor d’Oltralpe.
È malata, è profondamente malata, la relazione tra scuola e lavoro.  Questa distanza abissale e inspiegabile tra una scuola inadeguata ai tempi che corrono e un mondo del lavoro che chiede competizione, elasticità, dinamismo, mette in crisi prima di tutto noi donne. Perché la scuola non allena alla competizione.
Perché l’impresa non riconosce il merito. Per questo la filiera deve tornare ad avere un senso complessivo, rappresentare un processo compiuto e coerente, senza soluzione di continuità.  La scuola deve tornare a dialogare col mondo imprenditoriale e col mercato. La scuola deve conoscere il contesto produttivo, le imprese, gli imprenditori, il territorio, i suoi punti di forza e di debolezza, i distretti, i quartieri industriali e artigianali.
Gli imprenditori e le imprenditrici devono fare scuola nel senso che devono poter trasmettere la loro esperienza e profonda conoscenza del mestiere agli studenti,ma anche nel senso che le imprese non possono smettere di studiare e progredire. Se davvero crediamo che dell’apporto femminile non si possa fare a meno, scuola e lavoro, educazione e imprenditorialità, merito e valore debbono tornare ad essere al più presto le facce della stessa medaglia.  Le donne sono scolasticamente le migliori. Dimostriamo che anche sul lavoro è possibile.
di Arianna Visentini

lunedì 4 febbraio 2013

Geni si nasce!



Cosa fare se il proprio bimbo, alla tenera età di 5 mesi gattona, a 9 cammina, a 18 sa contare fino a dieci, riconosce tutti i colori o sa disegnare un cerchio perfetto?
In America hanno un classificatore da noi molto poco usato (anche per il suo relativo valore), il fatidico
 Q.I.

Innanzitutto bisognerebbe evitare di sottoporre bambini e ragazzi a pressioni che la loro giovane mente non è in grado di sopportare, evitando di farli sentire troppo diversi dagli altri e cercando invece di rendere loro l'apprendimento sempre interessante ed emozionante. Infatti, il rischio principale e che sui banchi di scuola questi bambini si annoino, imparino a dare per scontanti alcuni risultati. In molti casi sono addirittura a rischio di insuccesso e alcuni abbandonano gli studi. Per loro le normali lezioni sono banali.

La scuola, bene o male, cerca di accompagnare la maturazione dei bambini e dei ragazzi con il tipo di apprendimento adatto, e allora è più che comprensibile il terremoto psichico che si può creare nella mente di un bambino se a 10 anni finisce il liceo e a 14 l'università.

Secondo la Commissione europea nelle classi italiane c'è un numero di "piccoli geni" compreso fra 200 e 700 mila, ma spesso gli insegnanti non sono in grado di riconoscerli. Il rapporto Eurydice
 dal titolo "Misure educative specifiche per la promozione di tutti i talenti in Europa" segnala che in Italia non esiste una legislazione che affronti la questione, non ci sono strumenti specifici per l'individuazione dei ragazzi dotati di talenti particolari e mancano percorsi mirati per chi mostra capacità al di sopra della norma.

La raccomandazione del Consiglio d'Europa del 1994 già insisteva sulla necessità di offrire a questi alunni un sostegno adeguato. «Esistono alunni con bisogni particolari - si legge nel documento - per i quali occorre adottare disposizioni speciali. Gli alunni superdotati sono fra questi, essi devono potere beneficiare di condizioni di insegnamento appropriate che permettano loro di mettere pienamente in atto le loro potenzialità, nel loro interesse e in quello della società. Nessun Paese può permettersi di sprecare dei talenti».

In quasi tutti i 30 Paesi europei analizzati, Italia compresa, esiste una definizione degli alunni "superdotati", anche se da noi non è ancora stato adottato nessun "criterio di appartenenza" e non esistono percorsi particolari da seguire: così gli insegnanti e i genitori devono basarsi unicamente sul loro intuito. 

In quasi tutti i Paesi sono previsti percorsi particolari, come corsi potenziati frequentati da gruppi omogenei, o anche corsi extrascolastici di approfondimento. In ogni caso ai piccoli geni viene offerta la possibilità di accorciare il normale percorso di studi. In Francia, ad esempio, gli alunni possono seguire sezioni con insegnamento differenziato: sport, musica e danza per coloro che manifestano un talento particolare in questi ambiti. In Spagna è invece possibile saltare anche tre anni rispetto alla durata ordinaria dei percorsi di studio.