Pubblichiamo volentieri un articolo di Michael Dall’Agnello, docente alla scuola media Braida di Verona, che è apparso su Vita Nuova, settimanale diocesano di Trieste.
Michael, a cui piace definirsi amante della montagna e delle arrampicate, insegna dal 1996 alla scuola maschile di Verona che, come le scuole Faes di Milano e le altre della rete Faes in Italia oltre a molte centri scolastici in tutto il mondo, si rifà ai principi educativi di Victor Gracia Hoz.
In questo brano illustra con molta chiarezza e utilità il rapporto di alleanza educativa che deve e può instaurarsi tra scuola e famiglia.
Mettere assieme per costruire insieme
Pare che una delle ragioni per cui, dopo l’unificazione del 1989 che portava con sé il poco invidiabile retaggio dell’ex DDR, la Germania è tornata ad essere il motore economico dell’Europa, sia stata l’inesistenza delle controversie aziendali, grazie ad un patto, più o meno esplicito, tra lavoratori –sindacati compresi- e imprenditori: ognuno rinunciava in sostanza all’esclusività delle proprie rivendicazioni per trovare un accordo in funzione del bene dell’azienda e quindi di tutti.
Credo che questa sia una regola che si può applicare anche in campo educativo.
Alla base del successo tedesco sta un ideale condiviso –il bene dell’azienda- che per essere realizzato ha bisogno di comunicazione, cioè di mettere assieme per costruire insieme. Parallelamente alla base di una buona educazione sta un ideale condiviso –il bene dei figli-, che per essere realizzato ha bisogno di comunicazione, dapprima tra i genitori, e poi con tutti i soggetti che vengono a contatto con i figli. Mi riferisco per esempio alla cerchia parentale (nonni e zii che comunque devono sapere cosa vogliamo per i nostri figli), ai nostri amici, ma anche e soprattutto alla scuola.
Purtroppo oggi, anche in campo educativo, si confonde la comunicazione con lo scambio d’informazioni. E così, all’interno della famiglia, specie con l’arrivo dei figli, si passa da frasi del tenore di “Tu come stai?” ad altre come “Hai fatto questo?”, “Chi porta Giacomino scuola?” ecc., e si entra in una sorta di autismo relazionale, che prima o poi finisce per implodere o esplodere.
Comunicare invece vuol dire condividere le proprie aspirazioni e le proprie idee, le passioni e le fatiche, i sogni e le delusioni, i successi e le paure, in una parola instaurare una relazione vitale, significativa: partire cioè dal concetto che “Tu per me vali molto, e questo lo capisci prima di tutto da come ti guardo negli occhi!” Altrimenti basterebbe un computer per educare i nostri figli.
Per entrare in relazione bisogna imparare ad ascoltare.
Credo che ogni relazione, innanzitutto tra moglie e marito, ma anche quella con le altre “agenzie educative” tra cui la scuola, debba diventare, nonostante le inevitabili “stonature di percorso”, via via sempre più una sinfonia. Ognuno suona uno strumento diverso, note differenti, ma la musica deve essere una sola. Per educare i figli, tra marito e moglie, non importa granché chi sia a dirigere, l'importante è seguire il ritmo. A darlo sarà a volte la moglie, altre, il marito, e altre ancora –pur nella sua specificità- l’insegnate che condivide l’educazione del figlio. Il problema nasce quando ognuno va per conto suo e si finisce per trasformare la musica in rumore: quanti ragazzi sono frastornati dal “rumore educativo”! C’è bisogno di tornare ad imparare ad ascoltare -più col cuore che con le orecchie- e seguire il ritmo.
Ascoltare, ma anche avere un minimo di spartito, cioè un progetto educativo condiviso, che, pur con gli adattamenti e le variazioni del caso, venga ad essere il leitmotiv, il tema dominante. Il progetto educativo non è altro che il piano di lavoro che i coniugi devono avere per ogni figlio e così aiutarlo a diventare uomo, persona adulta, cioè onesta, leale, fedele, rispettosa degli altri, generosa e, in ultima analisi, felice.
Una volta tutte queste cose erano scontate; ad educare non erano solo i genitori, o la scuola, ma la società, perché questi valori erano condivisi, si viveva in una sorta di “villaggio educativo”, in cui ognuno svolgeva la sua parte. Oggi non è più così, viviamo in un modello di “società liquida”, in cui i rapporti non hanno più una base condivisa e rimangono spesso frammentari. Subentra perciò l’esigenza di una maggiore intenzionalità nell’educazione, perché niente è scontato. C’è inoltre bisogno di un’alleanza educativa tra i vari soggetti, e con la scuola in primis, la quale può fare ancora molto, perché anche oggi ha una funzione riconosciuta.
Nel mio lavoro d’insegnante capita di avere sì a che fare con i genitori, ma spesso si tratta di lamentele o proposte irrealizzabili, che portano purtroppo a un muro contro muro: da una parte la scuola e dall’altra i genitori. Si passa da frasi come “Il tal maestro ce l’ha con mio figlio” a “Il cibo della mensa non va bene” per finire con “Quel voto che ha dato a mio figlio non è corretto”… e ciò quando ancora si riesce a mantenere un contegno civile. Questo modo di rapportarsi non è né un’alleanza, né educativo, perché ognuno rimane dalla sua: non c’è vero ascolto, né tantomeno condivisione, e chi ci va di mezzo sono i ragazzi.
Come per il caso della Germania, dovremmo imparare a mettere da parte l’esclusività delle nostre rivendicazioni, per instaurare un’alleanza in cui, in un certo modo, si cerchi di tirare il carro nella stessa direzione. Ciò è possibile se abbiamo un progetto che vada oltre il transitorio, un’idea condivisa dell’uomo che vogliamo possa diventare nostro figlio, se impariamo a chiederci “Chi voglio diventi mio figlio?” più che “cosa”, e impariamo a comunicare con gli insegnanti con una visuale a 360 gradi. Credetemi, parlo da insegnante, spesso si può fare, soprattutto in quelle scuole in cui è chiaro l’intento di collaborare con i genitori, ci vuole solo un po’ di coraggio per lanciarsi, ma ne vale la pena!
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