Terza e penultima puntata della
riflessione sul discorso
di Benedetto XVI ai nuovi ambasciatori non residenti del 13 dicembre
scorso.
Nelle precedenti abbiamo condiviso spunti sulla famiglia e sul mondo dell’istruzione.
Il testo che propongo ora riguarda la dignità della persona,
che Benedetto XVI definisce a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone
XIII, mettendo bene in luce come per cambiare la società bisogna cambiare
l’uomo dato che la pretesa inversa, che sia cioè la struttura della società a
mutare l’uomo, è un clamoroso abbaglio, come peraltro segnalano anche autori
che abitano mondi molti diversi da quelli della fede e della spiritualità, come
ad esempio John C. Miller che nel suo saggio di management DDD la domanda dietro alla domanda spiega che per cambiare gli
altri dobbiamo cambiare noi stessi e il modo il quale ci relazioniamo agli
altri. Lasciamo la parola al Papa:
”La
disfunzione di alcune istituzioni e di alcuni servizi pubblici e privati non
potrebbe essere spiegata da un’educazione mal garantita e male assimilata?
Riprendendo le parole del mio predecessore, Papa Leone XIII, sono convinto
che «che la vera dignità e grandezza
dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio
comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai
proletari» (Rerum novarum,
n. 20). Invito dunque i vostri governi a contribuire con coraggio al progresso
della nostra umanità favorendo l’educazione delle nuove generazioni grazie alla
promozione di una sana antropologia, base indispensabile per ogni educazione
autentica, e conforme al patrimonio naturale comune. <...> Questi sono
passati al vaglio dei secoli e si sono pazientemente costituiti su basi che
rispettano l’essenza della persona umana nella sua realtà plurale, restando nel
contempo in perfetta sintonia con l’insieme del cosmo”.
Quali sono i valori che insegniamo
e che pratichiamo? Siamo affetti anche noi da alcune patologie ahimé spesso
tipicamente italiche quali l’amontismo (il problema è sempre a monte), il
benaltrismo (il problema è sempre ben altro), il rifiuto del coinvolgimento
(questo non è un problema mio) o quell’atteggiamento così comune di perenne
lamentela, spesso rancorosa e carica di livore, che si accompagna spesso
all’accusa delle mancanze altrui senza mai un briciolo di autocritica o anche
solo autoironia, così frequente in rete e nella vita?
E che dire di quella presbiopia che non distingue i propri
privilegi dai diritti acquisiti mentre e pronta a notare i privilegi, presunti,
degli altri?
Quali virtù coltiviamo nei figli?
In che modo? Siamo consapevoli che la virtù è un abito, (habitus cioè una
abitudine), che si costruisce con la ripetizione di atti corretti e che ogni
volta che applichiamo a noi stessi e ai nostri figli uno sconto, ci facciamo
del male?
Abbiamo chiara questa antropologia
che dovrebbe guidarci alla verità sull’uomo e sulla società?
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