Vogliamo oggi proporvi questo articolo, datato 24 Gennaio 2013. Molto interessante perché mette in evidenza il rapporto tra scuole e azienda, tra lo scambio che deve esserci (ma manca) tra insegnamento a scuola e competenze che le aziende richiedono. L'impressione è di trovarsi di fronte ad una situazione grave dove, data per scontata la buona fede di tutti (magari quasi tutti) gli interlocutori, sia difficile anche solo ascoltarsi. E qui forse torna in discussione il ruolo della scuola (ne parleremo di nuovo a breve) e della cultura: quest'ultima deve essere solo finalizzata al lavoro o deve gettare basi ben più ampie che spalanchino anima e mente dei discenti? Cultura è solo inglese, informatica e impresa o è anche di più?
E' malata la scuola o è malata la società che richiede a questa scuola solo tecnica e non cultura?
La scuola è davvero cristallizzata in un tempo che non esiste più o invece difende valori e tradizioni senza le quali la società crollerebbe?
Sarebbe il caso anche di capire di quali valori si parla, ma per ora più in generale la riflessione va al rapporto tra questi due mondi che oggi più che mai sembrano non solo lontani ma anche guardarsi in cagnesco e in lotta.
E' malata la scuola o è malata la società che richiede a questa scuola solo tecnica e non cultura?
La scuola è davvero cristallizzata in un tempo che non esiste più o invece difende valori e tradizioni senza le quali la società crollerebbe?
Sarebbe il caso anche di capire di quali valori si parla, ma per ora più in generale la riflessione va al rapporto tra questi due mondi che oggi più che mai sembrano non solo lontani ma anche guardarsi in cagnesco e in lotta.
Voi che ne pensate? Leggete e fateci sapere qual è la vostra opinione!
Eccola, la mia filiera di riferimento. Parte dalla scuola, confluisce molto presto nel lavoro, passa per la capacità di creare un’impresa o parteciparvi, valorizza i meriti a prescindere dal genere ma nella diversità riconosce un valore. Eppure questa è oggi nel nostro Paese una filiera profondamente malata. Le cui carenze sopportiamo quotidianamente.
È malata la scuola. Sebbene il Rapporto sulla Qualità della Scuola in Lombardia ne faccia un quadro a tinte rosa – e forse perché la mia esperienza è legata alla città in cui sono cresciuta e lavoro, Mantova – spesso nei fatti, percepisco la scuola (non tutta naturalmente) come una entità ferma, immobile e cristallizzata. Senza tempo.
Ancora in attesa della circolare che comunichi ufficialmente ai docenti e dirigenti che sono stati inventati il personal computer e la banda larga. Una scuola che non sa cosa sia l’impresa e che non trasmette ai nostri figli il valore di un mestiere, sia esso industriale o artigianale.
Una scuola con testi sorpassati che spiegano su carta cosa sia un ciclo produttivo,quando la più grande ricchezza dei nostri territori sono le piccole e medie imprese che lo studente non vedrà mai, se non quando intraprenderà la carriera lavorativa, cosa che accade sempre più in là nel tempo.
Una scuola estranea alle logiche del merito e del mercato. Quel mercato che dovrebbe tornare ad essere luogo di produzione e scambio di valore. Questa scuola non aiuta noi donne, noi imprenditrici, noi madri, noi lavoratrici. Questa scuola ci illude che siamo meritevoli in base ai canoni del livellamento delle competenze, del conformismo e dello stereotipo, dell’appiattimento verso il basso.
È una scuola nella quale noi donne ce la caviamo ed anzi superiamo i nostri colleghi maschi. Ma che ci penalizza quando ci troviamo alle prese con il primo lavoro, con la concertazione all’interno dell’azienda, quando siamo chiamate a dimostrare i nostri meriti, quando avremo una famiglia e ci sentiremo in colpa per non poter crescere i nostri figli a tempo pieno.
È malato il contesto lavorativo. Un mercato del lavoro troppo rigido che non ci agevola e non ci consente di scegliere con libertà la professione per cui siamo vocate, o di cambiare lavoro con serenità. Così come non ci agevolano la contrattualistica o leggi come la recente riforma del lavoro, che attraverso la retorica delle tutele irrigidiscono gli orari di lavoro, ci impediscono di rimanere libere professioniste (riconoscendoci l’autonomia di decidere orari e luoghi della prestazione), ci impediscono di lavorare da casa o infine di partecipare a riunioni di lavoro durante la maternità obbligatoria quand’anche lo volessimo.
È malata anche molta parte di quella impresa italiana che ha pensato troppo a lungo di poter sopravvivere senza la scienza, la conoscenza, la ricerca, l’innovazione, la cultura, lo studio, l’aggiornamento. Ha pensato che il vento favorevole della crescita economica sarebbe bastato a supplire a quel minimo di conoscenze teoriche che invece acquisivano i nostri competitor d’Oltralpe.
È malata, è profondamente malata, la relazione tra scuola e lavoro. Questa distanza abissale e inspiegabile tra una scuola inadeguata ai tempi che corrono e un mondo del lavoro che chiede competizione, elasticità, dinamismo, mette in crisi prima di tutto noi donne. Perché la scuola non allena alla competizione.
Perché l’impresa non riconosce il merito. Per questo la filiera deve tornare ad avere un senso complessivo, rappresentare un processo compiuto e coerente, senza soluzione di continuità. La scuola deve tornare a dialogare col mondo imprenditoriale e col mercato. La scuola deve conoscere il contesto produttivo, le imprese, gli imprenditori, il territorio, i suoi punti di forza e di debolezza, i distretti, i quartieri industriali e artigianali.
Gli imprenditori e le imprenditrici devono fare scuola nel senso che devono poter trasmettere la loro esperienza e profonda conoscenza del mestiere agli studenti,ma anche nel senso che le imprese non possono smettere di studiare e progredire. Se davvero crediamo che dell’apporto femminile non si possa fare a meno, scuola e lavoro, educazione e imprenditorialità, merito e valore debbono tornare ad essere al più presto le facce della stessa medaglia. Le donne sono scolasticamente le migliori. Dimostriamo che anche sul lavoro è possibile.
di Arianna Visentini
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