Pubblichiamo oggi un interessante e divertente articolo, a firma Lia Celi, tratto dal blog del Corriere della Sera "La ventisettesima ora".
Scacchi, cruciverba, traduzione dal latino, Ruzzle, equazioni di vario grado, il braintraining del dottor Kawashima: innumerevoli e spesso patetiche sono le strategie con cui gli adulti tentano di arginare lo spappolamento del cervello, impresa quasi altrettanto disperata che frenare il tracollo di pancetta e zone limitrofe. Non si rendono conto che le uniche vere assicurazioni contro il rilassamento dei neuroni in età adulta sono quelle che viaggiano sui seggiolini posteriori delle monovolume.
Noi mamme invece lo sappiamo benissimo: avere figli piccoli significa vivere con tutti i lobi del cervello attivati contemporaneamente. Perché ogni giorno veniamo sottoposte dai pargoli a un’immane gragnuola di domande: 288 secondo uno studio inglese, con una media di 23 all’ora, una domanda in più delle 22 cui deve rispondere il premier David Cameron durante il question-time. Con la differenza che le domande per Cameron vertono presumibilmente su politica ed economia, mentre quelle dei bambini toccano anche storia, scienza, arte, filosofia e religione.
«Perché l’acqua è bagnata?»; «Perché il gatto non può parlare mentre io posso fare miao?»; «Perché i preti hanno la gonna?»; «Perché le mamme non hanno la barba?». Roba che, non dico Cameron, ma perfino Churchill avrebbe sospeso la seduta per manifesta incapacità. La signora Thatcher, invece avrebbe tenuto botta. Non in quanto Iron Lady, ma come madre di due figli, abituata quindi al continuo question-time domestico che, secondo la ricerca britannica, rende le genitrici più sveglie e mentalmente reattive non solo di un politico conservatore ma anche di concorrenti di quiz, insegnanti di scuole elementari e medie, medici e allenatori di calcio in conferenza stampa.
Nel Regno Unito il top dell’inquisitività, pare, sono le bimbe sui quattro anni (390 domande al giorno) i meno curiosi i ragazzini sui nove (con 144), già avviati a diventare come i loro padri, che quando sono a casa di domande non vogliono farne né sentirne, e se interpellati rispondono «chiedi alla mamma». Con l’età le richieste calano di numero ma crescono in difficoltà, mettendo in crisi l’82 per cento delle madri, che si vedono soppiantate da zia Wikipedia come fonte di sapere enciclopedico. La ricerca inglese non spiega se il 18 per cento di madri che tiene duro sia composto di pozzi di scienza, di smanettatrici più veloci dei figli a googlare Wikipedia o di clamorose facce toste che rispondono la prima cosa che gli viene in mente, pur di zittire le piccole pesti.
Nella mia esperienza di italiana conosco madri di tutti e quattro i tipi: le competenti ma non troppo, le onniscienti, le wikipediche e le taglia-corto. Le conosco perché, a seconda delle situazioni, sono io questo o quel tipo di madre. Onnisciente per la figlia di quinta elementare, che si stupisce sempre di come io e il suo sussidiario sappiamo le stesse cose; competente quanto basta per la figlia di seconda media; record-woman di ricerca su Wikipedia per far bella figura con la figlia di prima superiore (ma poi per essere credibile mi tocca ammettere che ho cercato su Wikipedia); sbrigativa e bluffatrice con il figlio di cinque anni. E per un motivo molto semplice, che spero mi varrà la comprensione delle lettrici: la sua quota giornaliera di domande verte per lo più su un solo argomento, e cioè il mio modo di guidare.
Anziché consultarmi sui temi cari a ogni bravo bambino inglese, tipo «perché il cielo è azzurro?» o «di che cosa è fatta l’ombra?» mi fa domande tipiche da marito italiano, tipo «Perché fai questa strada invece dell’altra, che è più corta? Perché non superi quel camioncino? Perché vai così forte? Sei in riserva, perché non fai benzina? Non vedi che hai parcheggiato storto?». E non serve nemmeno più zittirlo con la compilation dello Zecchino d’oro; apprezza di più le istruzioni del navigatore satellitare, che soddisfano la sua innata voglia di efficienza e lo fanno appisolare in pochi minuti.
Ho la fortuna di avere un partner non troppo fiducioso nella vastità della mia cultura — dico fortuna perché questo lo induce a rispondere lui ai figli su parecchi argomenti sui quali teme potrei dare risposte sballate, dalla storia del rock (non ne so mezza) al fumetto (è il suo mestiere, non il mio), da alcune fasi della politica dell’ultimo ventennio (su cui le nostre vedute non sempre coincidono) alla meccanica del motore a scoppio (per la quale provo un singolare disinteresse). Questo mi solleva da una buona fetta delle 288 domande quotidiane, e offre anche a lui una chance di usufruire del mio brain-training bambinesco. Meglio approfittarne.
Fra qualche anno la nostra palestra intellettuale chiuderà. Da un giorno all’altro l’unica domanda che ci porranno i nostri figli è «mi dai venti euro?» 288 volte al giorno. E sarà troppo tardi per imparare a giocare a scacchi.
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