di Michael Dall’Agnello
In un clima di spontaneismo qual è
quello in cui viviamo, può sembrare anacronistico parlare di educazione alle buone
maniere. In fondo -si dice- ciò che conta in una relazione è il contenuto,
l’intenzione; per questo è meglio evitare fronzoli zuccherosi, manierismi
ipocriti, incipriati e imparruccati, da “Ancien Régime”: meglio una persona grossolana,
ma onesta! E questo, almeno in parte, è vero.
Con tutto ciò, però, si corre il
rischio di buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. Siamo passati da un
tempo in cui la forma era tutto, ad un altro in cui la maleducazione è addirittura
considerata un pregio. Non sarà che, se rettamente intrepretate e applicate, le
buone maniere hanno ancora qualcosa da dire? Molto dipende da cosa intendiamo
per persona. Sul fatto che, nelle relazioni tra persone, le informazioni
debbano essere certe e attendibili siamo tutti d’accordo. In linea di principio
la sincerità è un pregio, come rubare (almeno quando lo fanno gli altri) è
ancora considerato un crimine. E allora perché le cose non vanno? Alla persona appartengono
il concetto di buono e di vero, ma anche quello di bello! Il bello è ciò che, quando
guardiamo un quadro che ci affascina, ascoltiamo una musica coinvolgente o
semplicemente contempliamo il volto della persona amata, supera i sensi, “entra”
dentro di noi a poco a poco, e si rivela come una novità, rendendo la nostra
vita più piena. Il “bello” appartiene ad ognuno di noi! Con ciò non mi
riferisco agli stereotipi pubblicitari sul corpo in voga oggi, ma a qualcosa di
più profondo -per certi versi misterioso, ma reale- che si nasconde dentro
ciascuno e ciascuna di noi. Un qualcosa che si rivela quasi senza che glielo
chiediamo, ma che parimenti ha bisogno di essere “accettato”, per essere
trattenuto. Il tutto avviene spontaneamente, ma non di meno, ognuno ha bisogno
di essere educato al bello per saperlo riconoscere.
Alla fine del XIX secolo, nell’ambito
di uno studio sull’arte, ad un buon mussulmano, che non aveva mai visto
raffigurato un essere vivente, perché la sua religione glielo impediva, fu
fatta vedere l’immagine di un cavallo. Ciò che suscitò stupore fu la sua
considerazione: “Quell’immagine non è di un cavallo!”. Certo, dico io, non era mai
stato educato a leggere le immagini con figure vive.
Questo è il punto: così
come per l’arte, che richiede un ammaestramento per essere compresa –e per
essere espressa-, ugualmente, per contemplare ed esprimere il bello insito in ognuno
di noi, c’è bisogno di essere educati. Ecco il vero ruolo delle buone maniere!
E come l’artista ha bisogno di molta disciplina -alla quale del resto si sottopone
di buon grado-, anche per educare alle buone maniere, la disciplina è imprescindibile!
Non basta l’intenzione per fare un bel quadro, come non basta per raggiungere
la finezza di spirito: ci vogliono, impegno, pazienza… e regole, perché se il
bello del gioco del calcio non sono le regole, è pur vero che se queste mancano,
la bellezza rimane inesprimibile e il gioco finisce. L’obiettivo dunque è alto:
proporre un’educazione alle buone maniere esigente, ma “libera”, cioè condivisa,
almeno nelle sue finalità, anche da chi viene educato. L’impresa è rischiosa,
essendo sottoposta all’arbitrio. Per gli educatori non esistono ricette
preconfezionate, tranne la convinzione di lavorare per una causa che eleva
educando ed educatore, e l’amore per il bello e le virtù (suoi corollari), che intravvedono
nei loro discepoli.
Poca cosa, se si pensa al deserto
d’innanzi al quale a volte ci imbattiamo. Possono consolare due considerazioni;
la prima: se irrigo un deserto, ne faccio un giardino; la seconda è tratta dal
seguente dialogo tratto da “Il dottor Zivago” e si riferisce alla misteriosa
capacità che possiede chiunque, anche il più disgraziato, se toccato da una
scintilla di benevolenza, di “elevarsi” a sublimi altezze, ad onta di ogni
previsione:
"- E voi credete il contrario? Che il mondo sarà salvato dalla bellezza, dal mistero e cose del genere, Ròzanov e Dostevskij?
- Aspettate, ve lo dico io quello che penso.
Penso che se la belva che dorme nell'uomo si potesse fermare con una minaccia,
la minaccia della prigione o del castigo dell'oltretomba, poco importa quale,
l'emblema più alto dell'umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta, e
non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo,
che, per secoli, non il bastone, ma una musica ha posto l'uomo al di sopra
della bestia, l'irresistibile forza della verità disarmata, il potere
d'attrazione del suo esempio. Finora si riteneva che la cosa essenziale del
Vangelo fossero le massime e le regole morali contenute nei comandamenti,
mentre per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla
vita di ogni giorno, spiegando la verità al lume dell'esistenza quotidiana.
Alla base di questo sta l'idea che i legami fra i mortali sono immortali e che
la vita è simbolica perché ha un significato" (Borìs Pasternàk, Il dottor Zivago).
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