venerdì 8 marzo 2013

Il valore pedagogico delle buone maniere


di Michael Dall’Agnello


In un clima di spontaneismo qual è quello in cui viviamo, può sembrare anacronistico parlare di educazione alle buone maniere. In fondo -si dice- ciò che conta in una relazione è il contenuto, l’intenzione; per questo è meglio evitare fronzoli zuccherosi, manierismi ipocriti, incipriati e imparruccati, da “Ancien Régime”: meglio una persona grossolana, ma onesta! E questo, almeno in parte, è vero.

Con tutto ciò, però, si corre il rischio di buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. Siamo passati da un tempo in cui la forma era tutto, ad un altro in cui la maleducazione è addirittura considerata un pregio. Non sarà che, se rettamente intrepretate e applicate, le buone maniere hanno ancora qualcosa da dire? Molto dipende da cosa intendiamo per persona. Sul fatto che, nelle relazioni tra persone, le informazioni debbano essere certe e attendibili siamo tutti d’accordo. In linea di principio la sincerità è un pregio, come rubare (almeno quando lo fanno gli altri) è ancora considerato un crimine. E allora perché le cose non vanno? Alla persona appartengono il concetto di buono e di vero, ma anche quello di bello! Il bello è ciò che, quando guardiamo un quadro che ci affascina, ascoltiamo una musica coinvolgente o semplicemente contempliamo il volto della persona amata, supera i sensi, “entra” dentro di noi a poco a poco, e si rivela come una novità, rendendo la nostra vita più piena. Il “bello” appartiene ad ognuno di noi! Con ciò non mi riferisco agli stereotipi pubblicitari sul corpo in voga oggi, ma a qualcosa di più profondo -per certi versi misterioso, ma reale- che si nasconde dentro ciascuno e ciascuna di noi. Un qualcosa che si rivela quasi senza che glielo chiediamo, ma che parimenti ha bisogno di essere “accettato”, per essere trattenuto. Il tutto avviene spontaneamente, ma non di meno, ognuno ha bisogno di essere educato al bello per saperlo riconoscere.

Alla fine del XIX secolo, nell’ambito di uno studio sull’arte, ad un buon mussulmano, che non aveva mai visto raffigurato un essere vivente, perché la sua religione glielo impediva, fu fatta vedere l’immagine di un cavallo. Ciò che suscitò stupore fu la sua considerazione: “Quell’immagine non è di un cavallo!”. Certo, dico io, non era mai stato educato a leggere le immagini con figure vive. 

Questo è il punto: così come per l’arte, che richiede un ammaestramento per essere compresa –e per essere espressa-, ugualmente, per contemplare ed esprimere il bello insito in ognuno di noi, c’è bisogno di essere educati. Ecco il vero ruolo delle buone maniere! E come l’artista ha bisogno di molta disciplina -alla quale del resto si sottopone di buon grado-, anche per educare alle buone maniere, la disciplina è imprescindibile! 

Non basta l’intenzione per fare un bel quadro, come non basta per raggiungere la finezza di spirito: ci vogliono, impegno, pazienza… e regole, perché se il bello del gioco del calcio non sono le regole, è pur vero che se queste mancano, la bellezza rimane inesprimibile e il gioco finisce. L’obiettivo dunque è alto: proporre un’educazione alle buone maniere esigente, ma “libera”, cioè condivisa, almeno nelle sue finalità, anche da chi viene educato. L’impresa è rischiosa, essendo sottoposta all’arbitrio. Per gli educatori non esistono ricette preconfezionate, tranne la convinzione di lavorare per una causa che eleva educando ed educatore, e l’amore per il bello e le virtù (suoi corollari), che intravvedono nei loro discepoli.

Poca cosa, se si pensa al deserto d’innanzi al quale a volte ci imbattiamo. Possono consolare due considerazioni; la prima: se irrigo un deserto, ne faccio un giardino; la seconda è tratta dal seguente dialogo tratto da “Il dottor Zivago” e si riferisce alla misteriosa capacità che possiede chiunque, anche il più disgraziato, se toccato da una scintilla di benevolenza, di “elevarsi” a sublimi altezze, ad onta di ogni previsione:

"- E voi credete il contrario? Che il mondo sarà salvato dalla bellezza, dal mistero e cose del genere, Ròzanov e Dostevskij?
- Aspettate, ve lo dico io quello che penso. Penso che se la belva che dorme nell'uomo si potesse fermare con una minaccia, la minaccia della prigione o del castigo dell'oltretomba, poco importa quale, l'emblema più alto dell'umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo, che, per secoli, non il bastone, ma una musica ha posto l'uomo al di sopra della bestia, l'irresistibile forza della verità disarmata, il potere d'attrazione del suo esempio. Finora si riteneva che la cosa essenziale del Vangelo fossero le massime e le regole morali contenute nei comandamenti, mentre per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita di ogni giorno, spiegando la verità al lume dell'esistenza quotidiana. Alla base di questo sta l'idea che i legami fra i mortali sono immortali e che la vita è simbolica perché ha un significato" (Borìs Pasternàk, Il dottor Zivago).

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