lunedì 7 ottobre 2013

A 19 anni si può anche aprire una startup e offrire ben 15 posti di lavoro: ecco la storia di Kiwi

Kiwi, un nome particolare che porta con sè una storia interessante e che di questi tempi porta una sferzata di entusiasmo! 
Kiwi è infatti una startup nata nel 2011 dall’idea del 19enne Niccolò Ferragamo e che oggi dà già lavoro a 15 persone. Tutte tra 22 e 29 anni.
«Noi abbiamo scelto come nome e simbolo della nostra app il kiwi, uccellino piccolo, un po’ goffo e schivo che passa tutta la sua vita a cercare di volare», racconta Giulia Cian Seren, che nel team si occupa del marketing. «Questa è la nostra filosofia: siamo partiti come 19enni, ma non rinunciamo a volare».
La storia di Kiwi sembra molto la storia di Facebook, però ambientata in Italia: la scuola di Sant’Anna di Pisa è la cornice entro cui nasce questo progetto; in questa scuola Niccolò studiava Economia (laureato con sei mesi di anticipo!). Nel collegio universitario della città toscana, con Niccolò abitano tre “cervelloni” dell’informatica, che scrivono i primi codici e algoritmi di Kiwi. L’idea era ben chiara nelle lore teste, mancavano solo qualche soldo nel portafoglio. 
«Nel primo giro di investimenti abbiamo raccolto 80mila euro», racconta Giulia. Grazie al passaparola tra persone ma anche grazie ai ragazzi che credono davvero in questa idea e che si rivolgono a imprenditori e professori universitari per realizzarla davvero. L’idea è semplice e convincente: far interagire persone che si trovano in uno stesso luogo (ci sono varie fasce di distanza) o partecipano allo stesso evento, grazie all’applicazione per smartphone “Kiwi Local”.
Cos'è? «Kiwi è un social proximity networking che lavora sulla geolocalizzazione. C’è sia un aspetto ludico, magari si può chiedere alla persona che è in quel momento vicina se le va di andare a prendere una birra, ma ci si possono anche scambiare informazioni importanti. Tipo: “Hai un antidolorifico?”». Con kiwi si passa dall’ambiente globale di Twitter e Facebook al mondo locale (e reale).
Come funziona? Basta scaricare l’app (gratuita) sullo smartphone. E dopo il login è possibile vedere all’istante chi, della propria “rete” è vicino ed entrare in contatto con lui o lei attraverso chat o email. Gli utenti registrati, già 10mila sparsi soprattutto nelle grandi città italiane, possono pubblicare foto e commenti, che vengono visti solo da chi fa parte della stessa rete. «È come incontrare un ex compagno di corso dell’Università durante un viaggio di lavoro che porta entrambi a Londra. O fare network con un membro della stessa associazione durante uno spettacolo a teatro. Kiwi permette di scoprire profili interessanti a due passi da noi ma che, per mancanza di informazioni o di una occasione per comunicare, non avremmo mai conosciuto».
Gli investitori iniziali erano 19, che hanno offerto piccole quote, usate per finanziare l’attività di ricerca e sviluppo e le infrastrutture. Dopo due anni, il capitale totale del team raccolto ha raggiunto quota 350mila euro. L’ultimo round di finanziamenti ha fruttato ben 200mila euro di finanziamenti.  
Il team che porta avanti la startup è composto da 15 persone, nove sviluppatori e sei amministratori. Il cosiddetto “management”, anche se loro stessi ridono all’idea di usare questa parola per autodefinirsi. «Mi viene difficile dire “il mio capo“ quando parlo di Niccolò», scherza Giulia. Hanno tra i 22 e i 29 anni (il più “vecchio” è il capo del settore tecnico). «In cinque non raggiungiamo 150 anni». 
Ma come si fanno i soldi con tutto questo? Oltre all’app, la società offre anche servizi di geolocalizzazione e software per le aziende. «Tu e i tuoi colleghi potete scrivervi e vedere se siete vicini o nella stessa città. Puoi decidere se prendere un caffè con loro o evitarli», spiega Giulia. «Kiwi rende digitali le relazioni umane». Che non significa «rendere digitale la vita o perdere l’aspetto umano a favore di quello virtuale. Al contrario, vedendo la persona vicina che ha Kiwi, si può passare dal digitale al vis-a-vis. E chiedendo informazioni alle persone vicine che non conosci, puoi anche facilitarti la giornata, magari facendoti consigliare un buon ristorante». Poi ci sono i software da vendere alle attività commerciali per vedere i messaggi che si pubblicano in quel momento in quel posto su uno schermo, ma anche la pubblicità (locale ma non solo) e le app personalizzate per associazioni o organizzazioni. «Può essere un gruppo religioso o un’associazione culturale, che in questo modo si dota di un social interno. Così viene garantita maggiore privacy rispetto a Facebook». 
La maggior parte dei componenti del team di Kiwi frequenta ancora le aule universitarie, tra master e specializzazioni. Ma alcuni di loro hanno già esperienze in altre aziende. Niccolò viene da JP Morgan, Mario (Parteli) ha lavorato per Deloitte, Andrea (Castiglione) ha creato Butlr. Mentre alcuni degli sviluppatori hanno già lavorato per Google. «Siamo andati dagli investitori portandoci dietro anche queste esperienze e queste referenze», raccontano.
Perché questa non è mica la Silicon Valley. E «in Italia difficilmente prendono sul serio un 25enne che si presenta a chiedere soldi per la sua azienda», racconta Giulia. «Noi ci siamo riusciti perché siamo convinti della nostra idea. Non lo abbiamo fatto perché ci annoiavamo, ma perché volevamo fare qualcosa di nostro. Insomma, non è vero che in Italia va tutto male. Ma è più facile fare qualcosa di tuo anziché avere lo stesso ruolo o la stessa posizione in un’azienda». Certo, «alcuni ci hanno risposto “a 22 anni cosa vuoi fare?”. Ma non voglio parlare delle cose negative! La cosa importante sono stati quelli che hanno creduto in noi, magari rivedendo loro stessi a vent’anni». 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.